Luisa Bianchi, ex avvocato milanese nel settore del private equity e M&A, ha lasciato la professione dieci anni fa per dedicarsi alle sue vere passioni: l’arte, i viaggi e l’antropologia. Globetrotter full-time, ha visitato oltre 100 paesi del mondo, raccogliendo materiale e testimonianze fotografiche di realtà tribali ed etnie in via di sparizione, in una costante esplorazione alla ricerca delle radici dell’uomo. Quando non è in viaggio, vive tra Londra, Parigi e Milano. Il reportage che qui pubblichiamo è il risultato del suo recentissimo viaggio in Camerun, tra tribù numerose e colori sgargianti.
Nel museo di Douala, città senza alcun fascino come tutte le metropoli africane, mentre osservo il simbolo magico del potere dei re del Camerun, un signore in un elegantissimo pareo di lamé, scarpe in pitone e berretto nero decorato da cauri, si avvicina e mi sussurra che i poteri magici che avrebbero dovuto rendere invisibili i capi tribù nelle guerre coloniali non hanno evidentemente funzionato. Ogni popolo ha la sua magia, commenta, ma non sempre è efficace. È nel museo per cercare conferma di un documento, una lettera di suo nonno che tentava di scagionare il padre, uno dei re di Douala che alla fine dell’800 aveva ceduto la sovranità del territorio in cambio di whiskey, vestiti e illusioni europee. Gli errori ingenui dei capi tribù africani, gli dico. Mi risponde che è difficile essere capi saggi, “Sono il re di Douala”, mi spiega, “e ho imparato che l’interesse del popolo non sempre coincide con ciò che è giusto e ciò che è vero”.
È tutta in questa frase la contraddizione e la difficoltà del governare, qui in Camerun (ma in fondo ovunque), terra di governi locali, frammentata come pochi altri paesi in una tradizione di piccoli regni, le chefferies, dotate di un’autonomia territoriale esemplare (Zaia l’invidierebbe molto). Ogni lamido, sultano, fon – il termine varia a seconda della zone geografica – è a capo di un territorio su cui ha un potere di governo di derivazione tradizionale ancora molto forte e ampio, nonostante la costituzione attuale lo limiti. Ma la tradizione secolare e il prestigio nelle comunità locali sono più resistenti di qualsiasi legge. Ed è così che ai re vengono ancora attribuiti poteri magici.
Sentimento anticoloniale
Alla complessità delle chefferies si aggiunge un fortissimo sentimento anticolonialista e soprattutto antifrancese, sempre più diffuso in tutta l’Africa Occidentale. “I francesi hanno voluto imporre la loro politica, il governo, il modello economico, la loro lingua e la loro cultura, e ci hanno preso tutto”, così mi spiega il re di Douala. Il sud-ovest del paese, una striscia di terra colonizzata a suo tempo dagli inglesi (dopo la Prima guerra mondiale, partiti i tedeschi, Francia e Inghilterra si erano divisi il territorio del Camerun), ha chiesto l’indipendenza e nel 2017 si è auto-proclamata stato indipendente, l’Ambazonia, senza ottenere però alcun riconoscimento. “Ils ont coupez à morceaux l’Afrique pour pouvoir mieux voler“, hanno tagliato a pezzi l’Africa per rubare meglio, questa è l’opinione che ascolto più volte in questo viaggio.
L’odio verso la colonizzazione sorprendentemente sfiora solo in parte i veri colonizzatori contemporanei, i cinesi. Ma questi ormai hanno un know-how sperimentato: infrastrutture, nessuna imposizione culturale, nessuna interazione con la popolazione locale, e così si stanno prendendo l’intero continente. Basta osservare la strada costiera che dalla Nigeria va verso il Gambia, l’unica strada in tutto il paese perfettamente asfaltata, nonostante la stagione delle piogge e il traffico di mezzi pesanti. Ma tutti i grandi rimorchi che la percorrono in file interminabili trasportano tronchi di alberi giganteschi, forse mogani, destinati, mi dicono, alla Cina.
Lungo il fiume Logone
Partiamo verso i lamidat, le chefferies del nord, nella Far-North Region, una striscia di terra stretta tra Ciad e Nigeria. La nostra scorta – 8 uomini armati forniti dal governo del Camerun, che non vuole avere problemi con i visitatori stranieri – mi spiega che molte zone di confine con la Nigeria e il Ciad sono inaccessibili, Boko Haram fa continue incursioni e razzie. Eppure l’atmosfera lungo il fiume Logone, che segna il confine tra Ciad e Camerun, è meravigliosamente serena. Le piroghe attraversano il fiume cariche di persone, sacchi, capre, moto, bici, in un commercio transfrontaliero senza dogane né controlli. Le tribù Mousgoum, Kotoko, Peul, Bororo, Kanuri si mescolano nel mercato del lunedì, intorno a basse tettoie da cui pendono reti da pesca e pesce affumicato. Sono soprattutto donne e uomini della tribù Mousgoum, discendenti della tribù Sao che si è sparsa tra Ciad e Burkina Faso. Nerissimi, altissimi, giganti lucidi e sorridenti, con fisici perfetti e volti splendidi. Le donne e le ragazze coperte da veli di pizzo dai colori sgargianti, gli uomini con jellabiye e berretti rigidi, come in Niger e Sudan. Il lamido della zona però non ci riceve, il gigante-segretario ci informa che è in viaggio. Non ci resta che andare verso l’altro confine, verso la Nigeria, dai Kirdi, gli infedeli, animisti sfuggiti all’islamizzazione.
Moto perpetuo
Sulla pista lungo il confine con la Nigeria camion stracarichi di merci affondano in buche enormi e compiono equilibrismi sorprendenti su ponti distrutti. Auto senza targa sbucano dalla macchia, sono partite da Cotonou, in Benin, hub di arrivo dall’Europa, un po’ rubate, un po’ importate. Senza pezzi di ricambio, in poco tempo saranno tutte dei rottami. Le donne ritornano con i loro mille pacchi sulla testa, ragazzine con fascine di legna, bambini con mazzi di erbe. La gente che cammina all’infinito, nel moto perpetuo delle strade africane, portando sempre qualcosa.”In testa o porti la cultura o porti fagotti” dice un detto locale. Le donne bororo hanno venduto al mercato il latte denso nelle calabase decorate, ora camminano flessuose nei loro vestiti rossi e blu, le perline e i volti tatuati, le calabase in testa, il braccio a tenerle in equilibrio, il piercing al naso, i veli che ondeggiano nella luce opaca del tramonto.
Il Lamido di Oudjilla vive nell’antico saré, un labirinto di capanne alte e strette di fango e paglia. E’ il figlio del vecchio re che ha governato su queste terre per decenni, morto a 128 anni, qui dicono, dopo aver avuto 112 figli e 50 mogli. Lui si limita a 4 mogli e 24 figli, sotto la media della zona, che arriva tranquillamente a 60-70 figli. I Podoko d’altronde pregano ancora sulle anfore che contengono i teschi degli antenati e sulla pietra sacra che viene dal Sudan per avere tanti figli e popolare queste terre impervie.
Tuniche sgargianti
Al lamidat di Poli ci accolgono i griots, i cantastorie, in vestiti sgargianti, tamburi, trombe, cembali. Preparano la scena per quando arriverà il lamido con i suoi ministri, appena usciti dalla preghiera del venerdì nella moschea. I bambini accorrono ballando, un ragazzo esce a cavallo. Arrivano i ministri, elegantissimi nelle loro tuniche sgargianti, un bastone per il ministro al bestiame, cordoni colorati per il capo del cerimoniale. Copricapi, drappi, arco e faretra per le tre body-guards, vestite come guardie svizzere. Aspettiamo che il lamido ci faccia entrare nella sua chefferie. “Il re decide ogni cosa, e ha sempre ragione”, ci spiegano i ministri che ciondolano all’ombra della tettoia di paglia. Come in una corte medievale, come pellegrini e viaggiatori ai tempi di Ibn Battuta, entriamo a piedi nudi nella penombra della capanna dove il lamido ci attende. Ha il viso avvolto in un velo bianco che lascia scoperti solo gli occhi, la tunica verde sistemata in modo scenografico sul trono per dare un senso di imponenza, il capo cerimoniere è letteralmente sdraiato ai suoi piedi, i ministri avvolti in turbanti e tuniche vivaci seduti a semicerchio. Sono felici di accoglierci, nessun turista è mai venuto a trovarli, e rispondono alle domande – molto orgogliosi ci raccontano che la famiglia del lamido regna da 126 anni su varie migliaia di persone, e che ci sono anche ministre donne. L’atmosfera si distende, ed alla fine ballano e cantano nel cortile della reggia-capanna, in un turbinio di colori e polvere rossa.
Nella tribù dei Koma
Il Camerun sorprende per questa varietà di culture, etnie, popolazioni, per questa continua contraddizione tra incredibili “buchi temporali” e aspirazioni globalizzanti. È un’Africa reale, antica, legata a tradizioni, eppure giovane, fatta di migliaia di ragazzini in uniforme che vanno a scuola, riempiendo ogni mattina le strade di lunghe colonne colorate. Un’Africa magica, dove i re hanno poteri misteriosi, dove i féticheurs governano i riti di passaggio delle comunità e i sorciers leggono il futuro dalle chele di un granchio. Non esiste praticamente nel paese una presenza occidentale visibile, non si incontrano quasi uomini bianchi (in 15 giorni incrociamo solo due francesi). Ma viaggiare qui è soprattutto un continuo viaggio nella storia dell’uomo, un viaggio a ritroso nel tempo, in cui si incontrano popolazioni che ancora vivono, per scelta, in completo isolamento, ed hanno per questo mantenuto integre le loro tradizioni millenarie.
Una di queste è la tribù dei Koma, arroccati sui monti Alantika, sul confine con la Nigeria, considerata una delle tribù più antiche e primitive del mondo. Degli oltre 20.000 Koma, divisi in 4 gruppi principali tra Camerun e Nigeria, sulle montagne ne sono rimasti solo circa 4.000, ritiratisi qui per sfuggire alle invasioni islamiche, e qui rimasti isolati per secoli, mantenendo inalterate le loro tradizioni animiste. Gli altri sono progressivamente scesi a valle, dove hanno assorbito la cultura islamica e si sono urbanizzati.
Il viaggio per raggiungere i Koma non è facile. Dopo 4 ore di pista dobbiamo lasciare la toyota, troppo grande per i sentieri di montagna. Prendiamo delle moto, guidate dai ragazzi del villaggio. E’ un paesaggio fiabesco quello che attraversiamo mentre il sole si fa più fioco: un minuscolo sentiero di sabbia in mezzo a campi di miglio e sorgo, ciuffi di palme roniers, ruscelli da guadare, le montagne intorno. Dobbiamo proseguire a piedi, inerpicandoci sulle colline, facendoci strada in mezzo alle spighe rosse del sorgo. Su un terrazzamento che sovrasta la vallata a circa 800 metri di altitudine ci vengono incontro le donne del villaggio: “taka taka”, benvenuti. A seno nudo, un gonnellino di foglie fermato da una striscia di stoffa. Le donne più vecchie con la pipa in bocca. Gli uomini ora si coprono con pezzi di stoffe o pantaloni, ma in zone più remote ancora indossano solo un astuccio penico. Le donne hanno tutte gli incisivi strappati, è un elemento di bellezza, ed è il segno della loro iniziazione: con gli incisivi, qui, non si trova marito. L’iniziazione dei ragazzi è altrettanto dura: circoncisione ed isolamento sulla montagna coperti da foglie per 3 settimane. Poi altri mesi da soli nella brousse con scudo e lancia. Nel saré, un circolo di capanne di fango, il fumo del fuoco perennemente acceso, l’odore di birra acida (viene data anche ai neonati), una vecchia accende un fuoco con una selce e un filo di paglia, come nel Paleolitico.
Ora è il tempo delle celebrazioni per il raccolto, iniziano a danzare per le loro divinità, una per ogni elemento della natura. Gli uomini al centro con i tamburi, le donne in circolo, i neonati sulla schiena, i bambini per mano. Sorridenti ed accoglienti, mi spiegano che raccolgono anche i bambini della tribu vicina, i Koma Pana, quando questi li abbandonano – una volta uccidevano interrandoli vivi i neonati podalici ed i gemelli, portatori di sciagure, ora fortunatamente si limitano ad abbandonarli. La danza del raccolto termina, inizia quella funebre, ma è gioiosa e allegra, perché celebra la morte di un vecchio: quello che si festeggia, allora, non è la morte, ma la lunghezza della sua vita.
Ancora più indietro nel tempo – viaggiare in questo paese non è muoversi nello spazio ma nel tempo – nella foresta pluviale ad est del paese andiamo dai Baka, tribù pigmea che da millenni vive in questo habitat tra Camerun, Congo e Repubblica Democratica Centrafricana.
Nella riserva naturale di Dja, tra i Baka
Da Yaoundé in poi, siamo entrati in un mondo diverso. Dall’Africa del Sahel all’Africa equatoriale. Una muraglia verde, fittissima e intricata, costeggia la pista rossa nella luce a picco. Sulle moto intere famiglie, ragazze dai sederi imponenti e complicati disegni di treccine dei capelli, tutti sotto il parasole ficcato sul serbatoio, una specie di ombrello allungato aerodinamico. I mercati sui bordi della strada, i venditori di cocco e platani, le taniche gialle di olio di palma, i poliziotti che chiedono soldi, i camion rovesciati, la polvere, le bancarelle, i fumi del cibo, i colori dei vestiti. Bambini offrono in vendita un serpente enorme, morto. Viande de brousse. Uno scimpanzé è appeso crocifisso in una bancarella, cibo proibito ma ricercatissimo.
Entriamo nella riserva naturale di Dja, attraversiamo il fiume su un mezzo tronco scavato, poi seguiamo un sentiero costeggiato di orchidee selvatiche e farfalle. Da ore non abbiamo più segnale telefonico.A un certo punto la nostra guida Baka ci fa segno di girare per entrare nella foresta. Ma non esiste sentiero, si vede solo un muro verde. Lo seguiamo in quell’intrico, sparisce la luce del sole, spariscono i punti noti e ci troviamo chiusi sotto una cappa di arbusti, alberi di 30-40 metri, liane, foglie, radici aeree, felci, parassiti, un mondo umido e verde che ingloba ogni cosa. Lo percorriamo quasi correndo, se ti fermi per qualche secondo le formiche giganti salgono dalle gambe e iniziano a mordere. Il machete apre impensabili passaggi. L’umidità è quasi del 100%.
Sentiamo a un certo punto, in lontananza, dei tamburi, poi voci di bambini. Appare l’accampamento dei Baka, fatto della stessa materia della foresta, confuso con questa nella luce azzurrognola di questa eterna penombra. Basse capanne di foglie in una radura, il fumo dei fuochi perenni. Una ventina tra donne, ragazzi, bambini e vecchi. Gli uomini non li vedremo, sono a caccia nella foresta, torneranno a tarda notte. Sono piccoli, quasi in miniatura, ma hanno il corpo armonioso e muscoloso. I tratti del viso vagamente negroidi, la pelle ambrata. I missionari purtroppo sono arrivati anche qui, e li hanno fatti vestire con qualche pezzo di stoffa. I Baka hanno scelto di restare nella foresta pluviale dove vivono da millenni, si ritiene siano i primi abitanti del pianeta. Cacciatori-raccoglitori come nel Paleolitico, non sanno cosa sia l’allevamento né l’agricoltura. Cacciano con una lancia di legno, le donne pescano. Vivono esclusivamente di ciò che trovano nella foresta. E la foresta li rifornisce di ogni cosa. E per questo ora sono minacciati: disboscamento, attività minerarie, bracconaggio stanno rovinando il loro habitat. Non hanno il culto dei morti – neppure li seppelliscono, li abbandonano semplicemente nella loro capanna e si spostano nella foresta. L’iniziazione per uomini e donne è semplice: diventano adulti quando sono in grado di cacciare e pescare da soli. A quel punto i denti davanti vengono limati in modo da renderli appuntiti. È il loro segno di identità, serve per strappare la carne. Hanno però una loro cosmogonia, ed un dio supremo, Yeshua Komba, anche se loro trattano solo con il dio della foresta, Edjengui, che appare di notte coperto di foglie.
Il capo dell’accampamento ci dà il benvenuto spruzzandoci l’acqua sulla testa con una fronda d’albero, poi li seguiamo nella foresta, dove ci mostrano le loro tecniche di caccia, di raccolta, le liane che tagliano e da cui sgorga acqua, le piante che usano per curarsi, quelle allucinogene per i riti divinatori, le trappole per i piccoli roditori che, insieme a vari bruchi e insetti, sono il loro cibo abituale.
In mezzo alla foresta pluviale, nel cuore dell’Africa equatoriale, nel caldo umido di questa natura super potente, questi omini piccoli e sorridenti vivono in completa armonia con la natura come 20.000 anni fa, non sanno cosa è il denaro e non vogliono contatti con l’esterno, non accumulano nulla e non pensano al futuro. Le donne giocano nel fiume e gli uomini più anziani passano la giornata su una panchina, senza sentire il bisogno di fare alcunché. Senza monili, senza utensili, senza storia e senza lingua scritta. Non hanno nulla e pare non abbiano bisogno di nulla, nella loro pacifica tranquillità. Il loro unico mondo è la foresta, vivono solo di ciò che questa dà. Sono essi stessi foresta.
È notte, continuano a chiacchierare tra di loro, chissà cosa si raccontano, visto che si conoscono tutti da sempre e non hanno altre esperienze al di fuori della vita quotidiana nella foresta. E non hanno parole per esprimere idee che appartengono ad altre realtà – non hanno ad esempio la parola “guerra”, concetto che per loro non esiste. Ma soprattutto hanno la più grande libertà: non hanno il senso del tempo, e quindi non avvertono la nostra urgenza di vivere, sono senza età, e non sanno cosa sia il passato. Per loro esiste solo la serena ripetizione di un eterno presente, protetto dall’immensa volta verde di una foresta destinata a scomparire.
Luisa Bianchi, 29 novembre 2022