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Cara Francia, altro che Trinità dei Monti: restituisci le opere del Louvre

L’ex sottosegretario alla Cultura, Vittorio Sgarbi, interviene sull’ultimo delirio di Parigi

Come fu per la stele di Axum restituita all’Etiopia, qui è arrivato il momento di rivendicare tutto. Certamente italiano è Palazzo Farnese, in affitto all’ambasciata francese, che ne dispone senza condizioni. E se Trinità dei Monti è francese, l’Italia è di fatto azionista di maggioranza del Louvre. La Gioconda è un dono, il resto è un furto, sistematico, organizzato con tutte le caratteristiche del saccheggio, non prescritto, in tempi successivi alla concezione della scalinata. «Il più grande spostamento di opere d’arte della storia», scrive lo storico Paul Wescher. Venti anni di spoliazioni continue, dal 1797 fino al 1815, privarono il territorio italiano di opere grandiose come il Laocoonte, la Venere Capitolina, opere di Tiziano, Guercino, Guido Reni, Hayez, Barocci, Veronese, Canova e di tanti altri artisti.

Le sedi delle opere italiane sono gravemente depauperate per quest’opera di sistematica rapina. Penso a un grande telero come le Nozze di Cana di Paolo Veronese che oggi occupa una intera parete del Louvre, sottratto al Refettorio di San Giorgio a Venezia, dove è stata ricollocata una sapiente replica per colmare il vuoto che rappresentava una vera e propria mutilazione, spiritualmente incolmabile. Durante il terribile saccheggio francese alla Repubblica di Venezia, Napoleone e le sue truppe portarono via anche la Quadriga della Basilica di San Marco per l’arco di Trionfo del Carrousel a Parigi. L’idea era, per Napoleone, che «Parigi diventi un’Atene moderna, e che la capitale degli abusi, popolata da una razza di uomini rigenerati dalla libertà, diventi grazie a noi la capitale delle arti».

Anche le opere d’arte dei paesi occupati venivano in certo senso «liberate» dall’oppressione dell’ignoranza. Ci pensò Canova a recuperare, su incarico di papa Pio VII, le opere prelevate a Roma e in tutte le altre città dello Stato Pontificio. Canova dirigeva tutti i musei romani. La sua notorietà e la conoscenza delle opere rubate gli resero meno complicata la delicata missione. Canova arrivò al Louvre nell’agosto del 1815 ma Vivant Denon, il direttore, non lo agevolò, anzi lo ostacolò in ogni modo. Quelle restituzioni per lui erano veri e propri furti alla Francia e tentava di rallentare in ogni modo il processo di restituzione. Canova ebbe un alleato nella sua impresa: William Richard Hamilton, il sottosegretario del ministro degli Esteri britannico che aveva a cuore la causa italiana. Canova catalogò e imballò con cura tutte le opere che avrebbero fatto ritorno nello Stato Pontificio ma anche in altre città come Milano, Firenze e Venezia.

Al tempo non c’era alcuna lista di ciò che era stato trafugato e quindi Canova doveva affidarsi solo alla memoria. Riuscì comunque a redigere un elenco assai dettagliato di tutte le opere fatte arrivare al Louvre da Napoleone. Il 2 ottobre del 1815, finalmente, grazie anche all’aiuto delle forze armate britanniche, ebbe inizio la restituzione delle opere all’Italia anche se molte mancano all’appello. Non ne sono tornate più di 250. Trattandosi di proprietà indiscussa, la nostra Corte dei conti potrebbe ordinare di porre in ogni luogo in Italia una lapide che ricordi che vi è un’opera nel Paese e nel museo sbagliato, dove è, con le altre, in mostra ma resta di proprietà italiana, seguendo il modello del rapporto francese: «La scalinata è stata costruita con fondi francesi all’inizio del XVIII secolo e in seguito mantenuta per decenni dai Pii Stabilimenti della Francia, custodi dei beni d’Oltralpe, ma anche, in diverse occasioni, negli ultimi anni, dal Comune di Roma, anche attraverso sponsorizzazioni». La formula è perfetta e adeguata. Per noi.

Vittorio Sgarbi, Il Giornale 14 settembre 2024

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