Il presidente del Consiglio ha tenuto la sua prima conferenza stampa di fine anno. Meloni ha risposto alle domande dei giornalisti, gran parte delle quali sulla legge di bilancio e sulle questioni di maggiore attualità politica. Una domanda, nello specifico, ha riguardato le riforme costituzionali previste dal programma di governo del centrodestra, in particolare quella sull’elezione diretta del Presidente della Repubblica e sulla forma di governo semipresidenziale “alla francese”. Il presidente del Consiglio, rispondendo alla domanda, ha precisato che non esiste una soluzione precostituita, anche se in passato si era espresso favorevolmente al semipresidenzialismo alla francese, perché c’era già stata una convergenza politica tra centrosinistra e centrodestra, citando espressamente la bicamerale presieduta da Massimo D’Alema nella seconda metà degli Anni Novanta (poi naufragata).
Il presidente del Consiglio, nell’indicare i tempi della riforma, ha precisato che a febbraio il ministro per le riforme istituzionali, Maria Elisabetta Alberti Casellati, incontrerà le opposizioni, e che la maggioranza non ha preclusioni su un tema così importante; pertanto, le formule si possono eventualmente “anche inventare”. Sulle modalità Meloni si è detta disponibile a valutare che l’iniziativa di revisione costituzionale provenga dal Parlamento, senza escludere – qualora si perdesse troppo tempo – l’iniziativa governativa (con ddl del governo).
Come fare? Le soluzioni sono due. La prima soluzione è quella dell’iniziativa parlamentare o governativa (la sostanza non cambia), con apposito disegno di legge di revisione costituzionale, dunque, con discussione e approvazione prima in commissione affari costituzionali e poi nel passaggio all’Aula (sia Camera che Senato), con almeno due deliberazioni come previsto dall’art. 138 Cost. a distanza di non meno di tre mesi l’una dall’altra. Alla prima deliberazione è sufficiente la maggioranza semplice, alla seconda quella dei componenti. Se poi, entro tre mesi, ne fanno richiesta 1/5 dei componenti di una Camera, 500 mila elettori oppure 5 Consigli regionali, si tiene referendum popolare di tipo confermativo (senza quorum costitutivo).
In assenza di tale richiesta, ovvero se la riforma costituzionale fosse approvata da entrambi i rami del Parlamento a maggioranza dei 2/3 dei componenti in seconda deliberazione, il referendum non si tiene. La seconda soluzione è quella di istituire, in seno al Parlamento, una apposita Commissione bicamerale composta da circa settanta-ottanta parlamentari che rediga, discuti e voti il testo di revisione costituzionale, possibilmente nel modo più condiviso possibile, e poi lo presenti all’Aula per l’avvio della procedura di cui all’art. 138 Cost. che si è visto sopra.
Per entrambe le soluzioni le procedure da rispettare sono quelle dettate dagli articoli 72 e 138 Cost. Il primo impone, per i ddl in materia costituzionale, la procedura normale di esame e approvazione (esame e voto in commissione – esame e voto in aula articolo per articolo – voto finale – passaggio all’altra Camera fino al voto finale di entrambe le Camere sul medesimo testo), il secondo la procedura aggravata che si è vista in breve poc’anzi.
Considerati gli esiti delle commissioni bicamerali che si sono avute sinora, che in sostanza sono servite soltanto a perdere tempo senza portare a casa un bel niente, sarebbe preferibile partire subito dalle procedure di cui agli artt. 72 e 138 Cost., senza passare da commissioni ad hoc. Le ultime riforme costituzionali andate a buon fine (si pensi alla riforma sul giusto processo del 1999, quella del Titolo V nel 2001, oppure la più recente sulla riduzione del numero dei parlamentari) non hanno visto l’interessamento di alcuna bicamerale o apposita commissione.
Presidenzialismo, Semipresidenzialismo o Premierato? Tutte e tre le soluzioni sono ad oggi sul tavolo del governo, tanto è vero che il ministro Casellati il 9 dicembre twittava: “La prossima settimana inizierò le consultazioni con tutti i partiti per confrontarmi sui vari modelli di riforma costituzionale come il presidenzialismo, il semipresidenzialismo e il premierato. L’obiettivo della riforma, che prevede in ogni caso un’elezione diretta, dovrà essere comunque quello di garantire la stabilità del Governo con un adeguato bilanciamento di poteri”. Vediamoli brevemente tutti e tre, negli aspetti essenziali.
Presidenzialismo (esempio Usa): Capo dello Stato e del Capo del Governo sono la stessa persona. Il Presidente, eletto direttamente dal popolo (con sistema di elezione diretta o a due livelli, come quello dei “grandi elettori”) esercita il potere esecutivo e contestualmente rappresenta anche l’unità della Nazione. Il Presidente nomina e revoca i suoi ministri quando e come vuole. Esercita in taluni casi anche il potere legislativo che, oltre a trovare limite costituzionale su alcune materie, può essere fermato dal Parlamento con un voto che di solito deve essere espresso a maggioranza dei componenti. Non esiste il voto di fiducia/sfiducia Parlamento-Presidente. Il voto contrario del Parlamento su ordini esecutivi o proposte di legge del Presidente non comporta le dimissioni del Presidente, che tuttavia è obbligato a dimettersi solo nel caso il Parlamento voti nei suoi confronti l’impeachment.
Semipresidenzialismo (esempio Francia): Capo dello Stato (o Presidente della Repubblica) e capo del governo sono due persone differenti. Il Capo dello Stato è eletto direttamente dal popolo (con sistema di elezione diretta o a due livelli) mentre il capo del governo (che di solito è definito primo ministro) è nominato dal Capo dello Stato. Elemento fondamentale di questa forma di governo è l’esercizio del potere esecutivo in modo congiunto da parte del Presidente della Repubblica e del primo ministro. Di solito non si verifica alcun tipo di problema quando entrambi siano dello stesso colore politico perché la maggioranza parlamentare è la medesima di quella presidenziale, mentre i problemi sorgono quando la maggioranza parlamentare è di un colore e la presidenza di un altro: si verifica in tal caso la cosiddetta “coabitazione”, dove l’esercizio del potere esecutivo necessita di compromessi politici tra forze contrapposte. Non esiste il voto di fiducia iniziale Parlamento-governo, mentre esiste la mozione di sfiducia in ogni fase successiva della legislatura (di solito è un tipo di sfiducia costruttiva, cioè con una soluzione di governo o di ritorno alle urne già pronta e contenuta nella mozione).
Premierato (esempio Gran Bretagna): il Capo dello Stato può essere un Re o un Presidente della Repubblica, e a nulla – o quasi – rileva se questo sia eletto dal popolo o dal Parlamento. La figura centrale è quella del capo del governo, spesso definito primo ministro. È una variante della forma di governo parlamentare, ma qui il Primo Ministro non si limita a dirigere la politica governativa, bensì la determina e la guida. È nominato dal Capo dello Stato sulla base degli esiti elettorali per l’elezione del Parlamento. Il primo ministro nomina e revoca i ministri e, in alcune esperienze, può addirittura sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni. Non esiste il voto di fiducia iniziale Parlamento-governo, mentre esiste la mozione di sfiducia in ogni fase successiva della legislatura (di solito sfiducia costruttiva). La figura del primo ministro è strettamente legata al partito di cui è espressione, infatti il sistema elettorale più comune nei Paesi che adottano tale forma di governo è quello maggioritario.
Cosa farà il governo, con o senza il sostegno delle opposizioni, è ancora prematuro per dirlo. Per il momento ci limitiamo a registrare la volontà del presidente del Consiglio ad avviare un percorso di riforme condiviso. Nel caso vi fosse un ostruzionismo pretestuoso e ideologico da parte delle opposizioni, Meloni ha già annunciato che il ddl sarà di iniziativa governativa. Nel merito, occorre tuttavia sottolineare che il nostro sistema politico, dal 1994 al 2011, è stato nella sostanza vicino ad un premierato, con leggi elettorali a forte vocazione maggioritaria (Mattarellum prima, Porcellum dopo) che consentivano di conoscere il nome del nuovo presidente del Consiglio già poche ore dopo la chiusura delle urne (Berlusconi nel 1994, 2001 e 2008; Prodi nel 1996 e 2006), esattamente come avviene in Gran Bretagna. A queste leggi elettorali non è seguita però la necessaria riforma costituzionale che adeguasse la forma di governo al modello elettorale; dunque, il sistema si è avvitato su se stesso producendo gli ibridi Monti, Renzi, Gentiloni, i due esecutivi Conte (per quanto originale e innovativo fosse il primo) e infine Draghi.
Solo nel settembre 2022 si è tornati di fatto agli anni Novanta, con un presidente del Consiglio espressione di una maggioranza omogenea espressa dal voto popolare. È arrivata l’occasione per mettere mani alla forma di governo allo scopo di cucire al Paese un abito su misura, atteso da quasi trent’anni. Se non ora quando?
Paolo Becchi e Giuseppe Palma, 31 dicembre 2022