Rassegna Stampa del Cameo

Cara Nadia Toffa, il cancro non è un “dono”

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Dicono gli esperti del Web e dei Social che #NadiaToffa rappresenti oggi una “tendenza” seconda solo a #DecretoSalvini.

Per Matteo Salvini questo decreto rappresenta il sogno della sua vita di politico, lo si potrà contestare, e molti lo faranno e duramente (com’è giusto che sia), ma il modo con cui l’ha comunicato agli italiani è apparso sincero.

Altrettanto si può dire per Nadia Toffa (Iene) e del suo primo libro (uscirà a ottobre) “Fiorire d’inverno”, ove racconta, con il cuore a portata di tastiera, del suo Cancro, e della sua soddisfazione per essere riuscita a trasformare “quello che tutti considerano una sfiga, il Cancro, in un dono, in un’occasione, in un’opportunità”. La frase è bella perché appare, ed è sincera, peccato per quel “dono” che proprio non ci stava, “occasione” e “opportunità” bastavano (un errore di entusiasmo, immagino). Proprio lei avrebbe dovuto saperlo che i Social sono spietati, appena annusano un termine improprio non perdonano, specie se si tratta di un personaggio celebre come Nadia Toffa. E quel “dono” non glielo hanno perdonato.

Visto che anch’io ho scritto appena due mesi fa un libro sul “mio” Cancro (“Il Cancro è una comunicazione di Dio” ), e vista la mostruosa differenza di età che ci divide, mi permetto alcune considerazioni che potranno essere utili a Nadia quando presenterà il suo libro. Sono certo che in quell’occasione ricupererà il rapporto con il suo pubblico. Sul Cancro inteso come “nemico” sono state scritte pagine indimenticabili, di infinita energia e poesia (mi limito a citare per tutti due fiorentini, come Oriana Fallaci e Tiziano Terzani). Personalmente ho cercato invece di uscire dallo schema “nemico-guerriero” (troppo mite per essere “guerriero”) e ho considerato il Cancro non come un “nemico” ma come un “intruso” da delegare alle forze dell’ordine (i due professori che mi seguono). In questo modo ho delegato la “mia vita” ai medici e ho trattenuto per me lo “stile di vita”. Il libro che ho scritto, e che sto presentando in giro per l’Italia (domani a Palermo, a metà ottobre a Bruxelles) è nato come difesa psicologica personale, ma via via che viene letto molti mi scrivono per condividere certe sfumature. E mi rendo conto che il libro sta assumendo una sua dignità, e io sto diventando una persona diversa da quella di prima. Pare quasi che le nostre strade si separino. Perché il rapporto non medico ma umano con il Cancro è accettabile, quindi credibile, solo attraverso sfumature comunicative dalle infinite gradazioni. Mi pare che nel suo caso i Social, se le sfumature c’erano, non le abbiano colte.

Penso invece che lei, cara Nadia, abbia scelto di aprire a tutta la rete, non solo il suo cuore, ma la sua intimità più profonda, forse l’anima. È stato molto bello. Mi permetto di suggerirle un report scientifico (su questo aspetto c’è pochissima letteratura medica), addirittura del 2008, del professor Andrykowski MA. Mi è parso di capire che in casi molto rari, quindi che non fanno dottrina, la comunicazione della diagnosi possa innescare nel paziente una reazione positiva e lo sviluppo di sentimenti di aumentata autostima, maggior apprezzamento della vita, sensazioni di serenità. Da qua la definizione di “Crescita post traumatica”. Sarà il suo caso? Come ovvio ne sarei molto lieto per lei.

Lei Nadia è una specialista di comunicazione, sono certo che saprà riconfigurare questa sua vicenda in modo tale da non apparire un Mandrake 2.0. Parlare del Cancro, specie se lo si ha, è molto difficile, dobbiamo essere cauti perché i messaggi che si trasmettono, non parliamo di quelli filtrati dalla rete, ma gli originali, spesso possono avere letture percepite come doppie, come triple. E sarebbe terribile.

Riccardo Ruggeri, 26 settembre 2018