Ci avviciniamo, a grandi passi, alla fine dell’anno. Fervono i preparativi per le cene in famiglia, le piazze si organizzano per il conto alla rovescia e il saluto al nuovo anno. Questo periodo è, inevitabilmente, anche il tempo dei bilanci nelle nostre vite: cosa avremmo voluto fare diversamente, cosa avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, cosa, invece, abbiamo fatto.
In questi giorni non posso evitare che il mio pensiero vada, sicut meus est mos, ai giovani, in particolare al loro bisogno di punti di riferimento. In fin dei conti, in questo bisogno, si cela la fortuna del fenomeno degli influencer. Certamente i social hanno contribuito ad amplificarlo: in esso, paradossalmente, vedo una nuova forma di moralismo fatto di giudizi e di slogan avventati e gridati contro qualcuno o contro qualcosa: la magistratura, i docenti, la Chiesa, la famiglia. A pensarci bene, ad essere sfidata è la nostra voglia di metterci in gioco raccontando ai giovani che esiste un’altra via, che serve avere delle figure di riferimento, ma la differenza la fa la realtà in tutti i suoi aspetti.
Del resto, sono intimamente convinta del fatto che siamo nati per essere felici, che Dio ci vuole felici. Ma occorre intendersi su cosa sia la felicità e su cosa essa vada fondata. Del resto, la sofferenza e i momenti di buio attraversano le esistenze di ciascuno di noi e la fuga non è la risposta. Mai. Nei momenti di scoraggiamento penso a quei personaggi positivi che nella vita reale sono riusciti a fare della loro esistenza un capolavoro, diventando un esempio, in modo inconsapevole, per gli altri.
Penso a Renata Fonte, donna, mamma, assessore comunale di Nardò, che venne uccisa il 31 marzo 1984, a soli 33 anni, lasciando due figlie piccole, Sabrina e Viviana. Renta Fonte fu la prima donna nel 4 ad assumere la carica di Assessore alla cultura e alla pubblica istruzione. Si oppose alla mafia e due sicari la uccisero, all’uscita dal Consiglio comunale.
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Era il 31 marzo 1984, tardo pomeriggio; avevo nove anni ed era terminato il doposcuola, in una buona scuola pubblica statale che i miei genitori avevano scelto per gli ottimi docenti e per le attività pomeridiane di qualità. Anni spensierati con bravi maestri, che sapevano condire lo studio e l’applicazione con attività divertenti. A me piaceva andare a scuola e ricordo l’intesa (nessuna sbavatura, nessun contrasto, certamente perché cautamente evitato nel rispetto delle parti) fra i miei genitori, i primi responsabili della mia educazione, e il maestro. Allora c’era il rispetto dei ruoli, considerati come responsabilità vissuta in prima persona piuttosto che come rivendicazione da ring per giustificare il proprio fallimento.
Ritorno a quel pomeriggio, avevamo terminato i compiti e le maestre visibilmente stanche erano sulla porta della classe ad attendere i nostri genitori. La maestra di turno in quei giorni era Renata Fonte, quel pomeriggio era stanca e molto raffreddata.
Io, bimba sensibile ma anche curiosa, ascoltavo il dialogo fra le maestre. Come è vero che i bambini ci guardano e i ragazzi assorbono da noi più con l’esempio che con mille regole! La collega le dice: «Sei davvero raffreddata, avrai anche la febbre! Quando arrivano i genitori, vai a casa!» – ho ripescato nella mia memoria il luogo, le parole esatte. Renata Fonte rispose: «Sì, avrò forse la febbre, ma oggi ho il Consiglio comunale: non posso mancare».
Quelle parole chiare, semplici, forse anche un po’ ruvide risuonarono in me bambina come quel senso del dovere che porta a fare le cose bene, sino in fondo, senza sconti. Il giorno dopo risuonava in città e nella mia scuola, in modo lapidario, la notizia: «Hanno sparato a Renata Fonte». Alcune classi andarono al funerale, la mia no.
La mia maestra decise così e a me bimba, in fondo, andava bene la scelta. Ho così conservato il ricordo di una maestra che mi aveva insegnato che è bello vivere impegnandosi per un ideale, spendendo la vita a favore di qualcosa di grande. Renata Fonte, vittima di mafia: così fu decretato negli anni a seguire: venne uccisa da due sicari con tre colpi di pistola, mentre ritornava a casa dopo una seduta del Consiglio comunale. Durante il suo mandato, al fine di difendere l’area di Porto Selvaggio dalla speculazione edilizia, promosse una modifica al piano regolatore; l’omicidio venne commesso pochi giorni prima dalla seduta nella quale si sarebbe decisa la modifica da lei proposta.
Un’altra donna, Lucia Annibali. Era il 20 aprile 2013, la sua vita cambiò per sempre, a soli 36 anni: due uomini albanesi, mandati da Luca Varani, le sfregiarono il volto. Una donna bellissima dalla vita distrutta. Con il rischio di diventare cieca. Carissimi giovani, quanti di noi avrebbero trovato la forza di sottoporsi a quei numerosi interventi e, allo stesso tempo, di non cedere alla legittima e più che comprensibile voglia di essere una vittima. Lucia no, ha preso in mano la sua vita e ne ha fatto un capolavoro. Con coraggio si è sottoposta a numerosi e dolorosissimi interventi: «A un certo punto non li ho più contati, sicuramente più di venti», parole di Lucia che, dopo anni di speranza nei miglioramenti estetici, ha compreso che «forse è arrivato il momento di accettare che questo viso si può aggiustare ma fino a un certo punto». (Il Mattino 15/04/2023).
Lucia ha combattuto perché Luca Varani avesse la pena giusta, consapevole che questo avrebbe aiutato tante donne. Lucia Annibali è il mio secondo personaggio positivo alla quale devo dire grazie. È a lei che guardo quando la fatica per le grandi battaglie sembra prendere il sopravvento e penso a questa donna minuta, bellissima, oggi come ieri, che, con coraggio e determinazione, ha saputo combattere anche quanti, in modo poco elegante, hanno indagato fin nei dettagli più intimi la sua storia con Luca Varani. Lucia Annibali era giovanissima ma il suo coraggio, la sua eleganza, la sua determinazione sono divenuti per me un modello di vita.
Ed eccomi al terzo modello positivo: Giusy Versace. Una giovane volitiva, intelligente, stacanovista, che non ha sfruttato il suo cognome per non lavorare duramente. Giusy Versace ha perso le gambe in un incidente stradale nel 2005. All’epoca aveva 28 anni, oggi ne ha 46. È stata la prima atleta italiana a correre con la doppia amputazione. Giusy vince le Olimpiadi e diventa una campionessa della vita, sdogana la disabilità, la porta in Parlamento, parla di protesi. Vince Ballando con le stelle, lei senza le gambe vince una gara di ballo, realizzando il suo sogno di ballare come tutte le altre bambine. Senza il suo esempio, tanti, molto probabilmente, oggi vivrebbero nascondendo le proprie paure. A lei dobbiamo molto.
Tre donne, Renata, Lucia, Giusy, che non hanno fatto mistero delle loro paure e delle loro fatiche, che non ci presentano un mondo patinato che ci lascia tutti più soli e impotenti ma si assumono la responsabilità della presa in carico di ciascuno di noi e ci rendono migliori. Grazie a loro ci sentiamo meno soli: se ce l’hanno fatta loro, possiamo farcela anche noi. Ci sentiamo meno inadeguati, perché le nostre paure e le nostre fatiche appartengono a tre donne straordinarie che hanno saputo affrontare la realtà e volgerla al bene. Per sé e per gli altri. Per chi crede, in fondo, è esattamente quanto ha fatto Dio che si è incarnato in un bambino per trasformare le nostre esistenze.
Allora grazie Renata (oggi alle sue figlie Viviana e Sabrina), grazie Lucia, grazie Giusy per l’esempio positivo che mi donate. Spero che queste mie semplici riflessioni aiutino i nostri giovani ad ascoltare il loro bisogno di esempi positivi e a saperli cercare e trovare nella realtà. Questo è il mio augurio per il 2024!
Suor Anna Monia Alfieri, 29 dicembre 2023