Caro Ferrara, così i social censurano i dissidenti del clima

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Caro Giuliano i tuoi pezzi sul clima mi fanno godere come un pazzo. Recentemente hai scritto: “A luglio fa caldo da secoli, facciamocene una ragione con lo stile asettico dei bollettini dell’Aeronautica, invece di sacrificarci all’ideologia”. A chi ti contestava l’abuso del meteo, hai risposto che proprio dalle rilevazioni meteo si parte per fare considerazioni deterministe sul riscaldamento climatico.

Caro Giuliano ti chiederai perché diavolo ti scrivo questa letterina. Semplice. Perché vorrei raccontarti di come stiamo perdendo la partita e di come le grandi piattaforme tecnologiche, Facebook e Instagram, rappresentino oggi quei cattivi maestri che stanno distruggendo ogni possibilità di opinione dissenziente sul clima. Da una parte i loro manager locali raccolgono pubblicità come il più aggressivo degli editori, dall’altra si lavano le mani da ogni responsabilità editoriale e di censura.

In un recente articolo ti sei, legittimamente, lamentato della qualità e quantità di insulti che ti sei beccato quando denunci le follie del climatismo. Ma, direttore. è niente rispetto alla frustrazione che si prova quando sbatti il muso contro i nuovi kapò dell’informazione corretta: i fact checker. Che le piattaforme digitali utilizzano, senza appello, per pulirsi la coscienza di tutte le buffonate e cialtronate che ogni istante pubblicano. Anche a pagamento. A differenza degli odiatori da tastiera, questi signori godono di reputazione, hanno contratti di consulenza (ah conoscerli), fanno parte di network internazionali, vengono inviati agli inutili festival del giornalismo, che invece di rivendicare la nostra autonomia, applaudono a questi ragionieri di Wikipedia.

Veniamo al dunque, solo un paio di giorni fa ho pubblicato su Instagram una riproduzione della prima pagina dell’Unità del 1964: “Caldo Africano, mal comune di tutta Europa. Raggiunti a Torino i 40 gradi! Foschia sui litorali – Temperature record a Parigi – Temporali bollenti in Inghilterra”. E così via. Il mio commento a questa riproduzione dell’Unità era piuttosto banale: “Il caldo africano, così come anche l’afa killer non sono una prerogativa del 2022 #climatismo #caldo”.

Ebbene dopo poche ore il mio articoletto viene bloccato, con avviso ai naviganti che quel post “potrebbe fuorviare le persone”. Me lo censurano, e lo dico senza alcun piagnisteo. Ma la cosa grave, non è la censura, sono le motivazioni che adduce la società editrice (evidentemente Facebook-Meta questo è diventata) in collaborazione con dei fenomenali Fact checker, chiamati Facta. La foto viene limitata perché “fuori contesto” e perché “l’’articolo dell’Unità del 1964 non prova l’inesistenza del riscaldamento globale”. Fuori contesto, direttore. Lo ripeto: “Fuori contesto”. Scusate ma chi decide quale è il perimetro entro il quale io posso esprimere la mia banalità instagrammiana?

Per prima cosa ho pensato che fosse la solita follia di un algoritmo. Poi che avessi violato qualche copyright. Poi ho capito. Ci sono davvero dei portatori della verità che decidono il perimetro, il contesto, in cui è lecito esprimersi. Sesso, droghette, fluidità varie, rischio fascismi, tuffi da brivido e cretinaggini varie, sono tutte permesse e giustamente senza alcun contesto, ma se parli del caldo, santo Cielo, capisci bene il contesto fa tutto.

A ciò si aggiunga poi una falsità, che se non fossi sopraffatto dal clima (che nego) meriterebbe una denuncia. Da nessuna parte ho mai messo in discussione, nel mio post, il riscaldamento climatico. Mi si attribuisce una responsabilità e si applica una censura, riguardo ad una posizione che forse qualche premuroso fact checker presume io abbia, ma che in quel “contesto” non ho espresso.

Devi sapere che all’inizio della mia attività giornalistica, giovane redattore ai tg di Mediaset, ero perseguitato dalle richieste direzionali di pezzi estivi sul caldo: all’ufficio ricerca immagini avevano realizzato una cassetta ad hoc, detta preziosa, con tutte le immagini di repertorio che potessero illustrare l’afa killer. Non c’era estate che le immagini delle città assetate, dei vecchietti boccheggianti, e delle temperature fuori norma, non meritassero un minutino di popolarità. Insomma l’afa killer, il caldo record è sempre stato un cliché sciatto del giornalismo. Potrò ben dirlo su un mio profilo Instagram?

Evidentemente no, come spesso ha scritto Giulio Meotti, il clima è una religione, che si nutre di dogmi, e le piattaforme digitali non accettano bestemmie. Forse hanno ragione loro.

Nicola Porro, lettera al Foglio del 29 luglio 2022

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