Caro Nicola,
ti scrivo perché i miei sentimenti sono cambiati. Sono uno studente universitario di 20 anni, con ottima media e in regola con gli esami, appassionato di tutto ciò che il nostro governo è riuscito a demonizzare: amo le discoteche, la movida, gli assembramenti, la socialità. Per un ragazzo come me il vivere con gli altri non è, come ama dire il ministro Boccia, un’attività non necessaria. Tutt’altro. A vent’anni vedo il periodo più bello della mia vita disintegrarsi davanti ai miei occhi, mi sto rendendo conto ogni giorno di più di aver perso un anno della mia vita che nessuno mai mi restituirà.
Verrò descritto come egoista, come irresponsabile, come squinternato. Non mi interessa.
Mi interessa urlare ad alta voce di come non siano la mancanza dei locali o dei ristoranti o dei club o delle feste a farmi più male, bensì la privazione della mia libertà. C’è un’emergenza sanitaria in corso ed è evidente davanti ai nostri occhi, e ce ne sono altre due più mimetizzate: l’allarme economia e l’allarme socialità.
Il governo ha decretato il 18 dicembre la morte di migliaia di attività, in particolare quelle del mondo della ristorazione nonostante siano in maniera evidente le più controllabili: igienizzanti, distanziamento tra tavoli, uso di dispositivi di protezione da parte dello staff. Esse sono state le attività più colpite durante tutto l’anno, e quelle che hanno resistito di fronte ai ganci e ai diretti del nostro governo, oggi hanno ricevuto il colpo del ko. Eppure si parla di ristori, perché rimborsi non sono, misere mance con cui a malapena si riuscirà a ripagare i fornitori delle merci già acquistate. Ma i miei sentimenti sono cambiati.
Sono stati mesi in cui la rabbia ha prevalso per misure ingiuste, discriminatorie, per cui esistono cittadini di Serie A, i quali ricevono stipendio a fine mese, che hanno conservato lo status quo sul luogo di lavoro rivendicando il diritto allo sciopero in un momento del genere; e poi ci sono i cittadini di Serie B, i quali diritti sono stati totalmente soprusi, calpestati e cestinati come incarti dei biscotti della fortuna. Dopo la conferenza stampa di Conte, però, la rabbia si è trasformata in delusione.
Abbiamo perso ogni forma di socialità. Abbiamo perso il diritto di stare con i nostri amici, i nostri cari, le persone a cui vogliamo bene.
Abbiamo perso il diritto alla libertà. E quello non viene mai levato tutto in una volta, ma sempre a piccoli passi. Quando torneremo a poterci riappropriare del nostro diritto alla vita? Quando torneremo a non sentirci come sudditi di un regime bibitaro per cui un qualsiasi scappato di casa, tramite un tweet, può permetterci di vivere? Quando finirà questo incubo per cui convivere col virus è sinonimo di non vivere? E soprattutto, se il governo si sente legittimato a privarci delle nostre libertà anche con dati confortanti, con terapie intensive sotto controllo, con casi stabilmente in discesa, quando non si sentirà più legittimato dal fare tutto ciò?