Caro Porro, le inoltro una cronaca puntuale che spiega bene cosa significa fare l’insegnante in tempi di Covid.
Giorno 13 settembre anno I post Covid
Domani inizia la scuola. Quattro classi, si torna, ma non tutti. Ci sono quelli che la scuola se la spenderanno sul laptop di un pc. Faremo la Did, alias didattica digitale integrata.
La did, mica la dad: vuol dire che i docenti in aula dovranno connettersi con la metà della classe lasciata a casa e fare lezione sincrona su due canali, quello reale e quello virtuale. Protagonisti, primi attori e registi dovranno orchestrare lezioni fruibili da sguardi presenti e remoti. Come fare?
Ore 15: formazione estemporanea g-suite (ma molti usavano la piattaforma zoom e il salto non è affatto intuitivo).
Cerco di seguire ma il docente, bravissimo, disponibilissimo, del team digitale è agitato dall’ansia di travasare le sue competenze tecniche su un pubblico poco digitalizzato; e poi si tratta di un sapere procedurale, non possiamo solo guardare, dobbiamo provare, entrare sul sito, passare all’aula virtuale, accreditarci, aprire più finestre, presentazioni, condivisioni. Un casino! M’accascio sul tavolo, la testa tra le braccia, non ne posso già più, sono satura, sarà il multitasking (che non esiste, se non a prezzo di un rincretinimento progressivo) saranno i mesi di dad, sarà che son già stata subissata da quei wazzappari dei miei alunni che non ci hanno capito niente (come me del resto) e sono già in apnea sui turni, le connessioni ecc. Sarà che il digitale porta il cervello a uno stato cronico di iperstimolazione. Ma io non posso. Io non ce la faccio.
Giorno 14 settembre anno I post Covid
Ore 8,30
Eccoli che arrivano, alla spicciolata, e fioriscono i sorrisi. Anche coperti dalle mascherine è bello rivederli, riscoprirli cresciuti, sempre loro ma diversi, si sono imbelliti, finalmente ragazzi in carne e ossa che è tutta un’altra cosa. Mi vien voglia di abbracciarli ma non è lecito, devo accontentarmi di mettere una mano sul cuore con gli occhi umidi.
Ok, entriamo in classe. Temperatura sui 45 gradi, cinquanta quella percepita. Il sudore inizia a grondare sotto il bavaglio protettivo, ci sventoliamo con le mani perché qui non c’è una pala, un ventilatore: un burlone propone di cucinarci due uova sul davanzale.
Provano ad abbassare la mascherina per parlare. Fermi tutti: Mi si spalanca, beante, un baratro di incertezza, un’angoscia kierkegaardiana aut docente terrorista, rigida, ortodossa, di quelle che impediscono un attimo di sollievo, aut prof più elastica, umana, a rischio di essere accusata di culpa in vigilando. A risolvere il dilemma arriva la Ds, che ci cala dall’alto un lasciapassare: 15 alunni, se stiamo fermi, inchiodati alla sedia, possiamo calare un attimo la barriera anticovid. Con sollievo di chi già stava rotolando rantolando per il caldo e per l’affanno.
Oddio, avevo, in questa nebbia afosa, dimenticato:ci sono quelli a casa, i cui messaggi continuano a correre impazziti su whatsapp.
La follia delle lezioni a distanza
Va bene, connetto il cavo internet al PC. Si stacca. Lo infilo di nuovo. Si sfila. La presa è rotta, lasca, mi tocca tenerlo fermo con una mano il cavo mentre con l’ altra digito, apro, entro nel sito, entro nella classe virtuale, eccoli lì, evviva evviva, ci sono anche loro, li saluto tutta ilare.
Buon giorno ragazzi, come state. Niente. Li risaluto. Muti.
Inizio a sbracciarmi davanti alla telecamera, faccio “ciao ciao” con la manina, faccio lo spelling labiale come se parlassi a un ipoacusico. Ma lo fanno apposta? Adotto la lingua per sordomuti, scuoto lo schermo, lo strapazzo, cerco, clicco. Alla fine, remota, non identificabile, si leva un voce:
“Prof non si sente niente!”. Dio mio no, dopo tanta fatica la mia voce deve arrivargli in qualche modo. Sudo clicco cerco provo. Compare sulla schermata il viso dell’assistente tecnico.
Vai su quell’icona, digita sul microfono. Ma niente, dannazione. Intanto nello smanettare internet si è disconnesso, avrò fatto qualche contorcimento di troppo.
Devo ricominciare e in 4 minuti circa li recupero tutti sullo schermo. Ma niente, maledizione, il microfono non funziona. I presenti intanto hanno preso a parlare tra di loro, il brusio degenera, rischio di perderli. Eh, beh, ho anche loro da gestire. Da ritrovare, riabbracciare se non fisicamente almeno con l’animo; che faccio? L’assistente, mentre sto per cominciare a parlare con quelli in presenza, ricompare e mi suggerisce di chiudere tutto e riavviare.