Caro Porro,
sul caso della Rai che coccola Stalin, se può interessare te e i lettori della zuppa ho scritto una recensione di questo libro che riporto qui sotto.
Un caro saluto e buon lavoro.
Il Patto. Stalin, Hitler e la storia di un’alleanza mortale 1939-41 di Claudia Weber, Edizioni Einaudi, pagg. 264. € 28,00.
«… i nostri rapporti sono abbastanza buoni. Hanno urgente bisogno di ordinazioni consistenti per l’industria per poter pagare le riparazioni di guerra. […]. Con i tedeschi le cose dovrebbero procedere bene».
Stalin, 1929 in una conversazione con Georgij Cicerin, commissario del popolo per gli affari esteri dell’URSS.
«Con i tedeschi saremmo stati invincibili». Stalin, raccontato dalla figlia Svetlana Allilujeva Stalina nel 1969.
Tra queste due affermazioni di Stalin, temporalmente definite, si può inscrivere la storia di “un’alleanza mortale” e delle aspettative che il dittatore sovietico aveva nei confronti di Hitler, sua controfigura a occidente e partner di strategie geo-politiche, non sempre pienamente compreso.
Di quell’alleanza, il libro di Claudia Weber ricostruisce accuratamente gli antefatti, i preparativi, la realizzazione del Patto, la sua applicazione sul terreno, nonché la sua conclusione.
Fino a prima del crollo dell’Unione Sovietica, si è ritenuto che il Patto del 1939 tra il dittatore tedesco e quello sovietico fosse un incidente di percorso servito a Hitler per coprirsi le spalle verso est e a Stalin per uscire dall’isolamento in cui Gran Bretagna e Francia lo avevano posto dopo averlo escluso dal patto di Monaco dell’anno precedente. Ma le cose non stavano proprio così e il libro della Weber lo documenta molto bene attraverso fonti storiche e documenti di archivio.
L’accordo siglato a Mosca il 23 agosto 1939 dai due ministri degli esteri, Molotov e von Ribbentrop, non prevedeva solo un Trattato di non aggressione tra i due paesi, ma conteneva anche un Protocollo aggiuntivo segreto nel quale i due dittatori si spartivano, con minuziosa cura, la Polonia, considerata da entrambi un nemico verso cui gli stessi nutrivano profondi sentimenti di odio. Se quelli di Hitler erano abbastanza manifesti, meno noti erano quelli sovietici. L’Autrice ricorda che proprio Molotov chiamava la Polonia «il bastardo di Versailles» esprimendo il suo rifiuto per la Seconda Repubblica polacca e che già nel 1930, in occasione di un accordo commerciale per una fabbrica d’armi tedesca sul suolo sovietico, un generale dell’Armata Rossa, tale Ieronim Uborevic, a proposito di Polonia, aveva dichiarato che l’URSS e il Reich tedesco in pochi anni sarebbero stati in grado di «regolarizzarne i confini e ammazzare i polacchi!» Cosa che i soldati sovietici fecero accuratamente dieci anni dopo, nella primavera 1940, quando soppressero, con un colpo di pistola alla nuca e le mani legate con del filo di ferro dietro la schiena, 22.000 ufficiali polacchi, loro prigionieri, gettati poi in una fossa comune scavata nella foresta di Katyn. Accuratamente, perché la responsabilità sarebbe dovuta ricadere sulla Wehrmacht tedesca. Katyn, oggi in Bielorussia, nelle mappe del Protocollo aggiuntivo segreto era compresa tra i territori di competenza dell’URSS.
L’autrice evidenzia bene come l’intesa tra Germania e Unione Sovietica non fosse sorta all’improvviso al tempo del III Reich, ma una collaborazione tra le due nazioni si era già realizzata nell’intervallo tra le due guerre, durante la Repubblica di Weimar. URSS e Germania erano paesi sconfitti e umiliati dalla pace di Versailles e, con la grave crisi economica mondiale di quegli anni, era giocoforza che si incontrassero e collaborassero.
Nel 1929 Stalin diede avvio al primo piano quinquennale che avrebbe dovuto trasformare l’URSS in uno stato moderno e industrializzato e intraprese quel suo programma, acquistando dalla Germania attrezzature e macchinari per i quali il paese tedesco offrì i finanziamenti, a patto, però, che i prodotti fossero fabbricati in Germania da fabbriche tedesche. La Germania, in cambio, ricevette le materie prime di cui l’URSS era ricca e che servivano ad alimentare le fabbriche tedesche. Nel 1931 le ordinazioni sovietiche raggiunsero la bella cifra di 919 milioni di marchi e l’anno successivo superarono il miliardo, mentre i crediti offerti dalla Germania crebbero in proporzione. Il commercio con l’Unione Sovietica fu provvidenziale per la Germania che con le ripetute commesse di Stalin poté uscire dalla crisi.
L’accordo tra i due stati, però, non fu solo commerciale, ma divenne presto anche militare con l’apertura prima di una scuola per truppe corazzate a Kazan e poi di volo a Lipek, centri fondamentali per la Germania, perché consentirono di aggirare i divieti sul riarmo imposti dal trattato di Versailles.
Con l’avvento al potere di Hitler, fanaticamente antibolscevico, l’Autrice ricorda che questa collaborazione subì una battuta d’arresto. Tuttavia, anche dopo le persecuzioni operate dai nazisti sui comunisti tedeschi (il 15 marzo 1933 il Partito Comunista tedesco, KPD, viene messo fuori legge), il governo sovietico continuò a credere nella cooperazione con i nazionalsocialisti e, tra doppi giochi e cambi di umore da ambo le parti – in quell’ultimo anno prima della guerra, tutti in Europa avevano trattative con tutti – restò convinto che i nazisti avrebbero attraversato una metamorfosi simile a quella dei bolscevichi con la «rivoluzione dall’alto» di Stalin. Il pragmatismo della Realpolitik sarebbe prevalso e le relazioni tedesco-sovietiche non ne avrebbero sofferto, garantendo un avvicinamento di interesse tra i due stati, a prescindere dalle opposte ideologie, che non avrebbe più trovato ostacoli. In parte fu così, ma Hitler aveva più fretta di Stalin nel concludere il patto, perché doveva avviare la sua conquista dell’Europa occidentale.
Entrambi i dittatori condividevano non solo il progetto di spartirsi la Polonia, ma il disegno di un nuovo ordine europeo, in cui la politica di reinsediamento della popolazione fosse realizzata sulla base dell’appartenenza etnica, rendendosi entrambi responsabili di eccidi contro i profughi polacchi, gli ebrei e gli ucraini, anche se nessuno dei due conosceva i tempi e le vere intenzioni dell’altro.
Sebbene l’URSS abbia occupato la porzione orientale della Polonia con un ritardo di quindici giorni (17 settembre), quando la Polonia era oramai definitivamente vinta, quando la risposta anglo-francese si era rilevata inesistente e non c’era più il rischio di un intervento militare delle potenze occidentali e Stalin, quindi, poteva giustificare il suo intervento con il crollo dello stato polacco che «lasciava indifesi i fratelli di sangue ucraini e bielorussi», sebbene dunque quel calcolato ritardo, oggi molti storici sono propensi a ritenere che quel patto rappresenti la causa scatenante della seconda guerra mondiale e che le responsabilità per l’avvio delle ostilità debbano essere ripartite in egual misura tra la Germania nazista e l’Unione sovietica, anche se Stalin, raccogliendo l’offerta di Churchill, all’indomani dell’invasione nazista della Russia, riuscì a nascondere a lungo le proprie colpe.
D’altra parte l’affinità mentale tra i due dittatori è sorprendente e la si può ricavare dal Trattato tedesco-sovietico di delimitazione e amicizia firmato da von Ribbentrop a Mosca il 27 settembre 1939, dalla neutralità tedesca difronte all’occupazione sovietica della Finlandia (30 novembre 1939 e la sua successiva espulsione dalla Società delle Nazioni), «dalla disperazione dei comunisti francesi, ai quali nel giugno 1940 Mosca ordinò di accogliere calorosamente le truppe d’occupazione di Hitler a Parigi» e naturalmente dalla «fratellanza d’armi» nella lotta comune che i due regimi effettuarono contro la Resistenza polacca, fornendo un sostegno reciproco all’attuazione delle misure di terrore. La rottura avvenne due anni dopo, per l’eccessiva smania di potere e il controllo di alcune regioni meridionali della Polonia contese tra i due dittatori.
Solo con la caduta dell’URSS e la politica della Glasnost avviata da Michail Gorbacev si poterono aprire gli archivi dello stato sovietico e scoprire il Protocollo, fino allora segreto, allegato al Trattato di non aggressione con la Germania e Gorbacev dovette riconoscere la colpevolezza dell’NKVD (commissariato del popolo sovietico per gli affari interni) nelle esecuzioni di massa dei profughi polacchi, tra cui le più terribili furono quelle di Katyn, Charkoy e Kalinin.
Scrive l’Autrice nella introduzione: «Gorbacev non si decise a fare questo passo perché gli interessasse la revisione del crimine di guerra, ma in nome di una pacificazione e per calmare le acque. Nonostante la straordinaria pressione esercitata dalla Polonia, Gorbacev esitò fino a quando il suo ministro degli esteri Eduard Shevardnadze, Valentin Falin (ambasciatore dell’URSS a Berlino nel periodo 1971-78 ndr) e il capo del Kgb, Vladimir Krjuckov gli dipinsero quale fosse l’alternativa. […]. Gorbacev ammise la colpevolezza sovietica nelle esecuzioni di massa di Katyn per salvaguardare il mito centrale della “grande guerra patriottica” e per non consentire che si dubitasse della sostanziale ostilità tra nazionalsocialismo e stalinismo».
Domenico Del Monaco, 10 marzo 2023