Caro Porro, l’odissea di mio padre con una sanità che fa schifo

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uomo barella

Caro Porro,

voglio raccontare una breve storia non sul disastro economico del sistema sanitario italiano, ma su come medici e infermieri oggigiorno siano solo dei passacarte senza passioni. Ho portato mio padre al pronto soccorso di un importante ospedale romano per una sospetta ischemia. Parlava male e rallentato. Era un venerdì sera e da lì è iniziato un girone senza fine e senso.

Mio padre ha 81 anni, cardiopatico, diabetico, con fibrosi e ascesso ai polmoni e una insufficienza renale. Insomma mille acciacchi ma una tempra da 50enne. Mio padre è anche old style, di quelli molto educati e a modo, che evita di disturbare gli altri se non strettamente necessario. Perché dico questo? Perché chiunque abbia avuto a che fare con un pronto soccorso sa benissimo il caos e la disorganizzazione.

Papà ha fatto due tac tra venerdì e domenica sera che hanno rilevato piccole ischemie transitorie, ma niente di allarmante. Sarebbe passato nel reparto di neurologia per degli accertamenti il giorno dopo. Ovviamente così non è stato e papà è rimasto in barella per giorni. Senza cure, senza informazioni da parte dei medici, senza nulla. Io sono entrata più volte per portagli i medicinali, soprattutto l’insulina, perché ogni volta scoprivo che non gli passavano tutti i suoi medicinali perché sul foglio del medico non era indicato.

Rincorro i vari medici del pronto soccorso ma vanno sempre di corsa, e le risposte sono sempre le stesse: “Ora vediamo, ora vediamo”. E ovviamente non vedevano nulla. Dopo cinque giorni in pronto soccorso in attesa del letto in neurologia, e dopo tante incazzature, finalmente lo portano in reparto. Respiro di sollievo, papà è in un letto finalmente, le infermiere e i medici sembrano gentili e disponibili. Sono contenta e rassicurata. Eppure anche lì si apre nuovamente un girone infernale.

Scopro che papà non riceve l’insulina da tre giorni. Chiedo spiegazioni e mi dicono che sul foglio del medico (sempre lo stesso del pronto soccorso), era specificato che papà si faceva le iniezioni da solo e quindi loro non si muovevano. Spiego che le iniezioni da solo le fa in casa e non in un letto di ospedale. Scopro poi che la tachipirina in endovena data dal medico del pronto soccorso non era specificata sul famoso foglio e quindi mio padre non ne aveva diritto malgrado il dolore alle ossa. Parliamo della tachipirina. Scopro infine che una notte chiama l’infermiera dicendo che non respirava e gli viene detto “si alzi, cammini e prenda un bicchiere di acqua poi passa tutto”. Detto ad un paziente con fibrosi ed enfisema polmonare.

Perché dico questo? Perché spesso si parla della sanità senza soldi, ma per me il vero problema sono stati i medici e le infermiere. Perché nel reparto ad esempio ce ne erano tante, ma poche hanno dimostrato empatia e voglia di capire o di essere logici. Tutte arrabbiate, tutte lamentose, tutte sempre di corsa. Parlare con un medico è stato difficile perché papà era stato ricoverato in geriatria e non neurologia, e quindi ogni giorno su e giù con i vari reparti per comunicare o avere informazioni.

Dopo 15 giorni, papà torna finalmente a casa. Mal ridotto, dimagrito e con i valori sballati perché i medicinali sono stati presi a caso e senza una costanza (specifico che TUTTI i medicinali glieli portavo io da casa, anche la tachipirina). Ricordo anche le parole di amici e parenti: “Stai tranquilla, è in ospedale quindi in ottime mani”. E mi metto a ridere. E penso solo che la sanità italiana fa schifo e che forse era meglio curare papà a casa.

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