Le cronache sull’eterno bivio davanti a cui starebbe la Lega, urlaccio sovranista o palude neodemocristiana, presunta barbarie di Visegrad o presunta élite del Ppe, la caricatura di Salvini o la caricatura di Giorgetti, hanno francamente superato la soglia dello stucchevole. Soprattutto, si basano sul falso presupposto che l’alternativa sia questa, e solo questa. È un falso interessato, non a caso ripetuto a pappagallo sui giornaloni mainstream (di cui potete ormai invertire gli editoriali, senza che il risultato muti di una virgola), perché mira a disinnescare l’anomalia che il Carroccio ha costituito nei momenti migliori della sua storia, il suo essere il primo partito espressamente costruito sulle ragioni sociali dei ceti produttivi.
La Lega e i ceti produttivi
È quello che evoca Massimo Cacciari, non esattamente un incallito salviniano, quando insiste che “la Lega è l’unico partito che ha un vero radicamento sociale oggi in Italia”. E il radicamento, soprattutto ma non solo settentrionale, quello è: il blocco dei produttori, dei piccoli e medi imprenditori, degli artigiani, delle partite Iva e autonomi precari a vario titolo. Sono i veri “deboli” di oggi, e non a caso sono molto esigenti, ad esempio se la Lega e il centrodestra sbagliano i candidati nelle città si rintanano nell’astensionismo. Sono il blocco più indigesto allo statalismo su cui è costruito il Belpaese e al tecno-dirigismo su cui è costruito il Vecchio Continente, da cui lo stratagemma: ghettizzarli nel malumore populista, o riassorbirli nello status quo.
L’alternativa al populismo e alla neo Dc
E invece no, invece bisogna proprio far saltare questo aut-aut posticcio, bisogna ricordare, e ricordarsi, che una terza via, che ha già avuto successo nella storia, esiste, è quel liberismo nazionale rappresentato al massimo grado dall’eredità politica di una signora, una Lady di Ferro. Sì, perché mentre Maggie Thatcher riportava il Regno Unito tra le potenze industriali smontando Oltremanica i tentacoli burocratici e tassaioli dello Stato, nello stesso tempo impostava una battaglia epocale contro i tentacoli di quel super-Stato che gli euroburocrati stavano edificando sul continente. Lo dichiarò lei stessa in quello che fu molto più di un discorso, fu un vero e proprio contro-manifesto filosofico, sventolato nella tana del lupo, il Collegio d’Europa di Bruges (fucina di formazione della Burocratja), il 20 settembre 1988: “Non abbiamo ristretto con successo le frontiere dello stato in Gran Bretagna, solo per vederle reimposte a livello europeo con un super-stato che esercita un nuovo dominio da Bruxelles!”.
Il manifesto della Thatcher
È per questo che, mentre in patria liberava le energie della libera impresa dalla morsa ideologica e sindacale, gettava in faccia all’allora presidente della Commissione Jacques Delors quei titanici tre “No!” al progetto di centralizzazione politica dell’Europa. La lotta liberista (“liberale” purtroppo ormai rinvia alle moine liberal politicamente corrette) allo Stato che diventa Leviatano e la lotta nazionale (“sovranista” purtroppo è categoria nata male e utilizzata peggio) all’Unione Europea che diventa Leviatano sono due facce della stessa medaglia, nella lezione della Thatcher che manda al macero tutti i distinguo farlocchi con cui si baloccano gli editorialisti nostrani. La bussola è sempre una: l’individuo come fonte intangibile di diritti, il mercato come organizzazione spontanea che crea ricchezza, la libertà come valore ordinatore (non l’uguaglianza come scusa per la pianificazione, e nemmeno la sua sostituta al tempo del Covid, la “salute” sezionata dalla vita concreta delle persone e delle aziende).