Nel corso di Quarta Repubblica, ho assistito ad un dibattito molto interessante sulla infinita questione dell’evasione fiscale. Un dibattito che ha preso spunto dalle parole espresse in quel di Catania dalla premier Meloni, la quale ha definito “pizzo di Stato” un certo qual accanimento del fisco nei confronti dei piccoli commercianti, includendo implicitamente il vasto mondo del lavoro autonomo.
A questa eretica e coraggiosa presa di posizione, che andrebbe contestualizzata nell’ambito della campagna elettorale per le comunali catanesi, ha ribattuto con veemenza Piero Sansonetti, sostenendo un argomento che, soprattutto a sinistra, da decenni viene utilizzato come una clava. Secondo il direttore de l’Unità, “di fronte ad un Paese in cui le tasse vengono pagate all’87% dai lavoratori dipendenti, che il presidente del Consiglio dica che se un lavoratore autonomo che evade non è grave, perché quello è un pizzo di Stato, è una cosa inaudita.”
Ora, personalmente ho trovato normale che un uomo di sinistra tutto d’un pezzo come il bravo Sansonetti quasi saltasse dalla sedia, ascoltando la demolizione del dogma secondo cui le imposte sarebbero sempre eque operato dall’attuale capo del governo. Tuttavia, ciò che mi sento di contestare in radice, al di là dell’esattezza o meno della cifra sottolineata dal giornalista, è l’uso assai distorto che da decenni si fa di tale questione, ovvero della presunta sperequazione tributaria che esisterebbe tra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti, a totale detrimento di questi ultimi.
In estrema sintesi, questo trito paragone tra categorie di produttori di reddito non considera le evidenti diversità che caratterizza chi rischia in proprio, sottoposto com’è ad una serie di angoscianti problematiche – tra cui proprio quella fiscale, a cui è strettamente connessa una montagna di inutili e spesso vessatori obblighi burocratici (i famosi lacci e laccioli) – che non gravano sul dipendente. In tal senso voler raffrontare queste due fondamentali categorie economiche equivale alla assurda pretesa di sommare le pere con le mele.
Quanto poi a chi paga realmente più tasse tra costoro, ritengo che la questione sia ancora una volta mal posta. In realtà, a mio avviso, l’eclatante disparità richiamata da Sansonetti si basa da sempre su una attribuzione puramente nominale del carico tributario. Nei fatti sul piano delle singole imprese sono le aziende medesime nel loro complesso – intendendo con ciò datori di lavoro, salariati e collaboratori – che debbono produrre sufficienti risorse per coprire tutti i costi, tasse dei dipendenti comprese. Mentre sul piano sistemico più generale chi paga realmente le tasse, generando le risorse necessarie a sostenere una spesa pubblica colossale, è solo ed esclusivamente la struttura economica privata, composta per l’appunto dalle piccole e grandi imprese, dai relativi dipendenti e dagli odiati bottegai, evasori fiscali per definizione.
Il mio compianto amico Luigi De Marchi, che conobbi quando entrambi collaboravamo con L’Indipendente di Vittorio Feltri e di Pialuisa Bianco (che per la cronaca è stata la prima donna nel dopoguerra ad assumere la direzione di un giornale, guarda caso non di sinistra), sosteneva che la contrapposizione tra imprenditori, dipendenti e autonomi fosse tanto strumentale quanto fittizia. A suo parere il vero contrasto sul piano economico generale, includendo la complessa questione fiscale, semmai esistesse, andrebbe individuato tra produttori privati di reddito nel loro complesso e tutti coloro i quali, a qualunque titolo, vivono ed operano sotto l’ombrello dello Stato. Ancora oggi, dopo circa trent’anni, mi sento di sottoscrivere questa acuta osservazione.
Claudio Romiti, 2 giugno 2023