Caso Eternit, arriva una condanna (ma è più lieve)

Sei casi sono stati prescritti e per uno Schmidheiny è stato assolto perché il fatto non sussiste

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di Mattia Rossi

Non fu omicidio doloso, ma colposo. La Corte d’Assise di Napoli è giunta a sentenza nel filone del processo Eternit-bis che ha visto Stephan Schmidheiny, ultimo gestore di Eternit dal 1976 al 1986, imputato per l’omicidio volontario con dolo eventuale di sei ex lavoratori dello stabilimento di Bagnoli e due famigliari, derubricando il reato e allineandosi a quella che fu la decisione del gup di Torino nel 2016 che portò allo “spacchettamento” del processo.

Ribaltata l’accusa di dolo

Le Procure di Napoli e Vercelli, però, avevano ritenuto di procedere con l’imputazione dolosa che, molto correttamente, non ha retto alle valutazioni del collegio giudicante partenopeo. A seguito della riqualificazione del reato in omicidio colposo, sei casi sono stati dichiarati prescritti e per uno Schmidheiny è stato assolto perché il fatto non sussiste. Per un unico caso, dunque, il 74enne imprenditore svizzero è stato condannato a 3 anni e 6 mesi.

Si tratta di un provvedimento importante che, benché non abbia sancito un’assoluzione completa, quantomeno, sgombera il campo dall’accusa di dolo nella condotta dell’imprenditore: un dolo che i fatti processuali non hanno minimamente provato in quanto non c’è. Non solo: appare rilevante notare, infatti, come in uno dei due casi non prescritti, ovvero un esposto ambientale, la Corte abbia assolto Schmidheiny. È una decisione notevole in quanto apre lo spiraglio sull’impossibilità di provare – cosa che sarebbe, in realtà, ovvia – che l’imprenditore sia direttamente responsabile di tutte le morti che gli vengono contestate al di là di ogni ragionevole dubbio.

L’impegno nel miglioramento degli impianti

Intanto, nel filone principale che si celebra in Corte d’Assise di Novara, dove si procede per 392 omicidi volontari, sono iniziate le relazioni dei consulenti della difesa chiamati a confutare, una per una, le accuse formulate dall’accusa. I primi sono stati i commercialisti e revisori legali Stefania Chiaruttini e Luca Minetto che hanno dimostrato, bilanci di Eternit alla mano, i grandi investimenti che il gruppo svizzero, facente capo a Schmidheiny, fece negli stabilimenti italiani: oltre 33 miliardi per il miglioramento degli impianti, degli ambienti e della sicurezza sul lavoro e, complessivamente, oltre 84 miliari di lire nel tentativo di riportare l’azienda, nonostante la crisi del settore, a livelli di redditività e dare attuazione agli obiettivi fissati sin dal 1972, anno della scalata degli svizzeri al timone di Eternit, ovvero la ristrutturazione industriale dell’azienda e creare delle condizioni di vantaggio competitivo sui concorrenti.

“Eternit fin dal 1974…”

E che l’intento dei vertici di Eternit fosse proprio quello di investire qualitativamente sugli stabilimenti, stagliandosi nettamente al di sopra della media dei concorrenti, è confermato da alcuni documenti “super partes”. Quando nell’80 Eternit affrontò l’operazione di conferimento delle varie società, il consulente del Tribunale di Genova, il dottor Segalerba, si appoggiò a due periti i quali verificarono gli impianti: le conclusioni furono «efficiente manutenzione e continui aggiornamento tecnico». E ancora, nella relazione del commissario giudiziale Carlo Castelli dell’85 si legge: «La Eternit, fin dal 1974, ha iniziato lavori nelle fabbriche tendenti a ridurre, al limite del massimo tecnologicamente ottenibile, le fibre di amianto nell’atmosfera del posto di lavoro. Sembra invece che i concorrenti non abbiano effettuato (o lo hanno fatto in misura del tutto inadeguata) i necessari investimenti per il risanamento dell’ambiente di lavoro».

Considerazioni che lo stesso Castelli confermò anche nel corso del processo Eternit I nel 2010: «La Eternit aveva cercato di fare qualcosa sul campo della sicurezza del lavoro investendo una cifra allora abbastanza considerevole. È una cosa che confermo perché è vera». E in questo senso, hanno proseguito i due consulenti, va letta anche l’istituzione del Servizio Igiene e Lavoro (Sil), l’organismo interno con il compito di monitorare i livelli di polverosità, e di un centro di ricerca in Svizzera diretto da un luminare quale il dottor Klaus Robock.

I flussi finanziari Svizzera-Italia, dunque, dimostrano l’ingente impegno economico da parte di Schmidheiny (84,1 miliardi di lire) a fronte di appena 2 miliardi e mezzo che, dall’Italia, vennero convogliati al gruppo elvetico. Risulta, così, smentita la lettura dell’accusa che vorrebbe Schmidheiny disinteressato alla salute delle sue aziende per mero fine di lucro.

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