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Caso Weiss, la morte del giornalismo Usa

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Quello del giornalismo anglosassone era probabilmente anche un tempo solo un mito: l’oggettività e l’imparzialità assolute nelle cose umane, e quindi anche nell’informazione,  non esistono e i fatti sono sempre frammisti alle interpretazioni. Eppure, una volta, in America e in Gran Bretagna, i giornali “indipendenti”, quelli più credibili e autorevoli, riflettevano l’educazione liberale della borghesia che li leggeva, la quale era composta da individui che per natura tendevano a farsi autonomamente un’opinione sui fatti del mondo a partire dalla descrizione anodina di ciò che era accaduto e ascoltando almeno due “differenti” interpretazioni: le “due campane”, come si diceva; i pro e i contro.

Col tempo però qualcosa che è cambiato nel dna dell’America, della sua borghesia e di quello che, con un misto di rispetto e timore, veniva chiamato il “quarto potere”. Oggi quegli stessi giornali non solo “costruiscono” le notizie in modo tendenzioso, salvo poi bollare come “fake news” le opinioni in contrasto con le loro, ma propongono ai loro lettori una visione del modo rigida e predeterminata. Chiunque osa solo mettere in discussione le idee dominanti, o aprire una piccola falla al dubbio nel granitico moloch delle certezze acquisite, viene censurato e in alcuni casi anche cacciato o costretto ad andarsene via. In verità, come sempre accade nelle organizzazioni non informate al principio di libertà, sono gli stessi giornalisti ad autocensurarsi e a discriminare eventuali “pecore nere” isolandole e rendendo loro la vita particolarmente difficile, anzi impossibile. Che è quanto accaduto a Bari Weiss, una giornalista del New York Times, costretta a sbattere la porta per il clima di intolleranza nei suoi confronti che si era generato in redazione.

È solo l’ultimo episodio che ha per protagonista quello che un tempo era considerato il più prestigioso giornale americano proprio perché era una palestra di libertà e un solido baluardo contro ogni potere, non solo quello dei governi ma anche delle opinioni correnti. Qualche mese fa, per ben due volte, il giornale, già in stampa, era stato costretto a modificare il titolo che era stato giudicato, dai follower del profilo twitter, a cui era stata anticipata la prima pagina, troppo descrittivo e non ostile per principio a Donald Trump (la Weiss ha detto che la linea editoriale oggi la esprime più twitter che non la direzione). Il presidente americano il giorno prima aveva fatto un discorso particolarmente ispirato e super partes, ma, secondo le vestali della “correttezza editoriale”, non lo si poteva riconoscere perché, essendo Trump, c’era sicuramente un secondo fine nelle sue parole.

In sostanza: dica il giusto o l’errato, egli va sempre presentato come la “bestia nera”. Questa situazione della stampa americana porta due conseguenze: favorisce la tribalizzazione della società, chiudendo i ponti alla possibilità di  ogni dialogo fra diversi, che è il terreno di coltura della libertà e della democrazia; porta a rinchiudersi nella propria nicchia autoreferenziale e a non capire più la società che ci circonda, e che dovrebbe essere il fine del giornalismo. La Weiss era stata assunta qualche anno fa proprio perché, in quanto “centrista”, avrebbe dovuto aiutare a capire quelle tendenze che avevano portato all’elezione di Trump, che come è noto la  stragrande maggioranza della stampa americana, compreso il Times, non aveva previsto e anzi aveva ritenuto impossibile.

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