Cronaca

Caso Yara, toga indagata per “depistaggio”. Punto a favore di Bossetti?

La denuncia dei legali di Bossetti porta ad indagare due persone: cosa c’è dietro questa ennesima svolta

yara bossetti

Immaginate per un attimo di essere condannati all’ergastolo per omicidio. E immaginate che lo Stato neghi alla vostra difesa la possibilità di controesaminare la prova regina che vi inchioda. Che cosa fareste? Sarebbe, secondo voi, un fatto degno di uno stato di diritto?

“Frode e depistaggio”. L’accusa agli investigatori

Ora caliamoci nel concreto. È notizia di oggi che la procura di Venezia, nell’ambito di un’inchiesta relativa al celebre caso di Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate di Sopra brutalmente assassinata nel 2010, ha iscritto nel registro degli indagati il presidente della Prima sezione penale del tribunale di Bergamo, Giovanni Petillo, e la funzionaria responsabile dell’Ufficio corpi di reato, Laura Epis. Per entrambi le ipotesi di reato sono “frode in processo e depistaggio”, in base all’articolo 375 del codice penale. Norma che punisce “con la reclusione da tre a otto anni” il pubblico ufficiale che “al fine di impedire, ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale” modifica un corpo di reato, e prevede una pena ancor più severa se “il fatto è commesso mediante distruzione, soppressione, occultamento, danneggiamento, in tutto o in parte (…) di un documento o di un oggetto da impiegare come elemento di prova”.

La denuncia dei legali di Bossetti

L’indagine è scaturita dalla denuncia presentata dai legali di Massimo Bossetti che hanno sempre messo in dubbio la validità del test del Dna effettuato sugli slip della ragazzina che ha poi portato all’individuazione del muratore di Mapello e le modalità con cui i reperti sarebbero stati conservati. Per questo a finire sotto indagine sono il presidente della Corte d’assise di Bergamo che si occupò del caso, respingendo come inammissibili le istanze di riesame dei legali di Bossetti e la funzionaria dell’Ufficio corpi di reato.

Nonostante le innumerevoli richieste di riesame dei reperti, infatti, ai consulenti della difesa è sempre stata negata la possibilità di effettuare un test di parte sugli indumenti. Perché? Questa è la domanda che da ormai diversi anni ci si pone e a cui nessuno è ancora in grado di dare una risposta. Quei reperti esistono ancora? Se sì, sono stati conservati nel modo corretto? Su quegli indumenti vi è ancora traccia del Dna di “Ignoto 1” oppure il materiale organico si è esaurito o deteriorato rendendo di fatto impossibile ripetere il test? Al momento non è dato sapere. L’unica certezza è che in carcere c’è un uomo, un padre di famiglia, che da sempre si professa innocente, e che sulla sua colpevolezza è richiesto a tutti un atto di fede nei confronti di chi ha condotto l’indagine.

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