Era un genere nobile, la satira giornalistica, era l’arte di demolire qualcuno in punta di penna all’arrabbiata, anche avvelenata, ma con precise regole stilistiche: parlar bene del bersaglio per parlarne male, gonfiarne i meriti al limite del ridicolo, lisciarne i pregi almeno per la prima metà del pezzo salvo ribaltare tutto nel grottesco sul finale chiuso da una battuta, un aforisma, un calembour fulminante. Era un gioco di prestigio, una passeggiata senza rete sull’esile alto filo del paradosso, un saggio d’alta scuola, uno sfoggio di classe. C’era una volta il ritratto sott’odio, e non c’è più; la satira per iscritto, bisogna saperla fare e loro, modestamente, non la sanno fare. Dove per loro s’intende quelli della scuderia del Fatto, autentici quadrupedi di razza.
C’è ad esempio una selvatica, una che sollevava palettine in tivù, che forse si è convinta d’esser la novella Anna Kuliscioff, o magari Matilde Serao (“godo sulla parola, donna Matilde”), e per tratteggiare la politica donna Giorgia Meloni la definisce, ex abrupto, una che “parla all’intestino crasso”, e anche una Bestia, “Lei è la Bestia, e chiariamo, nel senso del talento istintivo e impetuoso…”. Ma sì, con la riserva cautelare che all’apprendista Irene Brin deve avere insegnato Travaglio, supposto erede di Montanelli. Fine, basta, abbiamo già dedicato troppo tempo a una simile prosatrice, né ci preme difendere la Meloni che, se crede, sa farlo benissimo da sola, da fiera sorella d’Italia. È solo per chiarire il livello.
C’è pure un’appendice, medesima scuderia, che si titilla coi cognomi altrui e sarebbe troppo facile, da terza elementare, cioè al livello suo, loro, di questi quadrupedi di razza, spappolare il suo, di nome, ma sarebbe come ficcargli un dito nell’occhio e due pappine in faccia: non ci sarebbe sugo, lui prende e porta a casa, è un Guittino d’Arezzo, ahi lasso, or è stagion de doler tanto. E poi uno rischia di scivolare sulla pomatina abbronzante, meglio non dire, che pazza idea. Son conati di ironia, tentativi un po’ strazianti d’essere chi non si può essere; e loro modestamente non sono. E sulla parola, la loro parola, è difficile godere. Come sconcertarsi, poi, se il popolo del web non capisce, non gradisce, ti spedisce ad alzare palette, a spalmarti l’unguento?
Questa è gente che si fa ritrarre mentre tiene un parigrado al guinzaglio, o gli passeggia sopra con gli stiletti, o racconta con dovizia del proprio feticismo: e dà lezioni di stile, ricama allo scalpello sull’altrui privato, resta a galla in fama di provocatrice, provocatore: però si sdegna una volta che la trashata ritorna addosso a folate. Questa è gente che alza il telefono ed esonda in trasmissioni dove c’entra come con l’arte di scrivere, e giusto per parlar di sé: io, io, io… Lo stile letterario è vagamente da scaricatori di porto, da camalli di razza: siccome Salvini parla alla pancia, Meloni all’intestino. Uno fa la Bestia, l’altra la è (come istinto, certo, come capacità). Ma ce li hanno questi, gli specchi, in casa? Ma si rileggono, ogni tanto? Magari col raffinato sottofondo di uno chançonnier francese: Gigi Proietti in “Nun me rompe er ca”. Concediamo solo sarebbe tremendamente ingeneroso bollarli come quadrupedi buoni per tutte le stagioni: questi non son buoni, punto. Ma è l’unica attenuante che meritano, e per colpe anzitutto stilistiche: perché debbono scrivere, se non lo sanno fare? A proposito.