Cronaca

Centrale elettrica Suviana, la storia dei “subappalti” è una bufala

tragedia bologna

La tragedia della centrale idroelettrica di Suviana, prima ancora che si chiariscano tutti i particolari dell’incidente, è stata purtroppo un’occasione ghiotta per rispolverare quelle pulsioni anti industriali di un pezzo della società italiana. Si tratta di un vero sciacallaggio. Ne abbiamo sentite di tutti i colori. Dall’eccesso di subappalti, agli allarmi inascoltati, alle politiche di privatizzazione, alle logiche del profitto.

L’unico modo certo per non avere tragici incidenti sul lavoro, sarebbe quello di non lavorare. Questo non vuol dire che non si debbano fare controlli e mettere in campo misure di prevenzione al passo con i tempi. Ma si dovrebbe avere il coraggio di affermare che ogni lavoro, prendendo una porzione importante del tempo della nostra vita, ci fa correre dei rischi. Ciò non è giusto. È sbagliatissimo. E incomprensibile. Morire per duemila euro, è una frase ad effetto. Rende bene la tragedia, ma al tempo stesso non spiega nulla. Anche decuplicando quello stipendio, non ci sarebbe mai una buona ragione per morire prematuramente.

Caro cardinale Zuppi, non c’è un motivo per il quale al Bambin Gesù ci sono tanti piccoli malati, e molti di loro terminali. E la nostra religione si rifugia, ovviamente nell’imponderabile. Non crediamo in un Dio cattivo. Ma lei ieri ha pensato bene di mettere in relazione i sette morti con un uomo cattivo. Bene, e chi sarebbe? Enel Green Power? Il suo amministratore? I suoi azionisti che lo hanno scelto? I responsabili della sicurezza? Le ditte appaltatrici con i loro amministratori delegati, impiegati, azionisti, manager? Chi è il cattivo di questa storia? Il sistema capitalistico, viene da pensare.

Le assicuriamo che nei regimi statalisti il rispetto dei diritti dei lavoratori è decisamente minore. Questo riflesso pavloviano, per cui ad ogni incidente sul lavoro corrisponde la volontà di qualcuno di farlo accadere (risparmiare e lucrare a dispetto della sicurezza vuol dire questo), è un riflesso malato. Fornisce un ipotetico colpevole, ci risolve un dilemma dell’anima, e al tempo stesso ci inganna.

Nel 2022, ultimi dati ufficiali, sono stati denunciati 1.208 infortuni mortali. Di questi solo 606 sono stati riconosciuti dall’Inail, l’ente pubblico che si occupa di questa drammatica contabilità. Dal 2018 ad oggi sono sempre stati in calo. Di questi 606 morti, circa la metà sono davvero avvenuti sul luogo di lavoro (365); mentre i restanti 241 sono deceduti per strada, durante il tragitto casa lavoro o negli spostamenti lavorativi. Insomma, vanno ad ingrossare quella triste contabilità dei 3.159 morti sulla strada che ci sono stati nel 2022.

Dovete scusarci se siamo così cinici. Ogni morto, sul lavoro come per strada, rappresenta una tragedia. Ma per affrontare e cercare di risolvere un problema, conviene definirne bene il perimetro. Oggi in Italia si muore dieci volte di più sulle strade che nei luoghi di lavoro. Il che non ci conforta, anzi dovrebbe preoccuparci.

Si poteva fare di più per evitare l’ultima tragedia? Certo che sì. Ma a sentire i sindacati la ricetta è semplice: meno subappalti. E anche in questo caso si capisce, come per Zuppi, che si è accecati dall’ideologia. Il procuratore capo di Bologna ha detto che si deve ancora indagare, ma che «non è il subappalto il problema». Le ditte interessate da questi appalti sono le migliori al mondo. E veramente pensiamo che un’impresa complessa come quella elettrica debba fare tutto in casa? Pensate che i codici degli appalti, ahinoi, da decenni, per agevolare la concorrenza, obbligano, anche ultra petita, a non fare tutto in casa. Secondo questi geni, Enel Green Power, dovrebbe fare da sola, dalle pulizie alle mense, dalle turbine agli impianti idraulici?

Ci sono sette morti e sette famiglie che piangono. Possiamo urlare contro il sistema, certo. Sarebbe meglio, prima, capire cosa è davvero successo e poi combattere, non genericamente, perché nei limiti del possibile ciò non accada più. Fare battaglie di religione serve a ben poco.

Nicola Porro per Il Giornale 13 aprile 2024

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