di Paolo Becchi e Giuseppe Palma
Tra i temi che il centrodestra porta avanti da sempre c’è la flat tax, cioè una tassa piatta da applicarsi su una parte del reddito dichiarato da professionisti e imprese. Salvini parla del 15%, Berlusconi del 23%.
In realtà la flat tax esiste già dal 2019, introdotta dal governo gialloverde, su richiesta della Lega, con la legge finanziaria approvata nel dicembre 2018. Da allora tutte le partite Iva che fatturano fino a 65.000 euro annui (in regime fiscale dei minimi o forfettario) pagano il 15% sul 78% del reddito dichiarato, senza oneri per il contribuente di conservare scontrini, fatture o altri giustificativi, con esclusione delle categorie aderenti dagli odiosi studi di settore e strumenti successivi. Fino al 30 giugno 2022 i cosiddetti forfettari erano anche esclusi dall’obbligo della fatturazione elettronica, esenzione che resta in vigore solo per coloro che dichiarano fino a 25 mila euro annui. Quantomeno fino a tutto il 2023.
La Lega propone di estendere la platea a cui applicare la flat tax a tutti coloro che dichiarano redditi fino a 70.000 euro annui, per poi arrivare ad estenderla a tutti senza tetto reddituale, sia lavoratori autonomi che dipendenti, garantendo il criterio di progressività tributaria (art. 53 Cost.) attraverso la leva delle detrazioni e delle deduzioni.
La flat tax, nei primi quattro anni dalla sua introduzione, ha ben funzionato perché conveniente soprattutto per le piccole e medie partite Iva, ma da sola non basta. Con legge n. 335/1995 (legge Dini) fu introdotta la gestione separata Inps, cioè l’obbligo per tutti i lavoratori autonomi di pagare i contributi previdenziali, norma poi estesa negli anni successivi con l’obbligo di iscrizione a seconda della professione esercitata – con relativi obblighi contributivi – alle casse di previdenza private. Ciò comporta un tale esborso annuale da parte del contribuente che vanifica largamente i vantaggi della flat tax, anche perché la contribuzione previdenziale spesso supera le imposte sui redditi.
Entro il 12 agosto i partiti dovranno presentare i propri programmi elettorali al Viminale, in vista delle elezioni politiche del 25 settembre. Un intervento che volesse davvero venire incontro ai lavoratori autonomi non può limitarsi solo alla flat tax, ma dovrebbe escludere dall’obbligo di versare i contributi previdenziali, se non in forma minima, tutti coloro che non superano, ad esempio, i 30 mila euro di fatturato annuo, altrimenti tra imposta sui redditi e contributi previdenziali, al lavoratore autonomo resta ben poco.
In buona sostanza la gestione separata e l’obbligo di iscrizione alle casse di previdenza private sono un regalo ad anni di mala gestione Inps nel primo caso, alle corporazioni dei professionisti nel secondo. Se davvero il centrodestra vuole aiutare le partite iva, non si limiti alla flat tax ma proponga anche di tornare alla legislazione precedente alla legge Dini. Libertà economica e di impresa significa anche non mortificare chi vive del proprio lavoro senza chiedere nulla allo Stato.