Dopo l’esito deludente delle regionali, nel centrodestra si comincia a discutere della necessità di una “svolta moderata”. Ma sulla questione occorrono dei chiarimenti – e dovrebbe fornirli in primo luogo chi evoca il cambiamento.
Giovanni Toti se l’è prima presa con Matteo Salvini, poi ha evocato una “costituente”. Mara Carfagna si è spinta fino ad affermare che “il populismo è finito” e che bisogna “formulare proposte costruttive per gestire le risorse in arrivo dall’Ue”. Il leader leghista, a sua volta, ha riorganizzato il Carroccio in dipartimenti tematici, annunciando la costituzione di un’ampia e collegiale segreteria politica. Il che, per sua stessa ammissione, equivale a dotarsi della struttura di un “vecchio partito”. Giorgia Meloni, dal canto suo, ha speso gli ultimi giorni piuttosto sulla difensiva: era suo il candidato che, sfumata la chimera di vincere in Toscana, doveva portare a termine un colpo apparentemente accessibile in Puglia.
Aggiustare il tiro
Ecco, occorre fare qualche distinguo. Un conto è celebrare i funerali del sovranismo, un conto è sottolineare che non ci si può comportare come se il mondo intorno a noi non fosse quello che in effetti è. Giancarlo Giorgetti, ad esempio, ha rimproverato il gruppo del suo partito al Parlamento Ue, per la presa di posizione a favore dell’autocrate bielorusso Aljaksandr Lukashenko. Un rimbrotto comprensibile, come comprensibile è la tesi della Carfagna: il Recovery fund è reale e non si può lasciare il pallino della sua gestione agli avversari.
Ma, nel rispondere al numero due del Carroccio, l’eurodeputato leghista, Vincenzo Sofo, ha colto un aspetto cruciale, chiedendo che «maturare politicamente significhi aggiustare il tiro e non cambiare direzione (ci provò già Gianfranco Fini e sappiamo come finì)». Sofo riconosce che, al Sud, è stato già difficile spiegare il no al Mes, che per la gente equivale a una sovvenzione miliardaria per una sanità oggi disastrata. Figuriamoci quanto sarebbe assurdo, a proposito del Recovery, limitarsi a gridare al commissariamento. È verissimo, peraltro: ma insieme alla denuncia, ci vuole la proposta. Una proposta credibile, seriamente alternativa a quella dell’ammucchiata Pd-M5s-Italia viva, da cui affiorino la sostanziale compattezza programmatica del centrodestra e la sua capacità di gestire un’agenda di governo. Ricucire il rapporto con Bruxelles non è facile, ma è indispensabile, a costo di ingoiare parecchi rospi, se si vuole evitare di finire cucinati a fuoco lento di qui ai prossimi anni.
La parabola di Fini
Dunque, la riflessione del centrodestra va impostata su una direttrice ben precisa. Vanno di sicuro evitate formule stantie come la «svolta moderata». I ceti sociali rappresentanti dalla coalizione sono tutto, meno che moderati: è gente giustamente incazzata, che però ha anche l’intelligenza di percepire la differenza tra il semplice moto di disgusto e la trasformazione della protesta in un progetto realizzabile. Soprattutto, il pericolo della «svolta moderata» è esattamente quello evocato da Sofo: la sindrome di una destra che cerca di mettere piede nei salotti buoni e, guardata con sdegno dalla platea da cui aspira a farsi accettare, si vende l’anima. La storia di Fini è emblematica: dopo anni nel ghetto della politica, non ha resistito alle lusinghe della società bene. Il risultato? È sparito dai radar. Perché, anziché votare per la brutta copia dei radical chic, il cittadino, se proprio è costretto, sceglie l’originale. Purtroppo, anche la parabola di Silvio Berlusconi si sta avvicinando a quella del suo ex delfino: pur di essere ricordato come uno statista, il Cavaliere ha tributato ogni onore ad Angela Merkel, la cancelliera che ne pilotò la caduta.