Sulla spinosa questione degli stipendi ai ministri non eletti in Parlamento, in termini in principio condivido in pieno il ragionamento di Nicola Porro, quando sottolinea che costoro “ricoprono un ruolo importantissimo” e, di conseguenza, “vorrebbero essere pagati come merita il loro ruolo”. In tal senso, dato che personalmente non credo all’esistenza di una sorta di equa retribuzione nel complesso mondo politico-burocratico, nell’attuale situazione l’idea di equiparare lo stipendio degli stessi ministri a quello dei parlamentari sembrerebbe una cosa assolutamente ragionevole. Oltre a ciò, occorre sottolineare, che conoscere quanto effettivamente percepiscano deputati e senatori rappresenta un vero rompicapo, dal momento che le voci che comprendono le loro entrate sono tante e spesso soggette a meccanismi così complicati che nemmeno il celebre Alan Turing, che durante il Secondo conflitto mondiale riuscì a decodificare i codici della macchina crittrografica Enigma, sarebbe stato in grado di capirci qualcosa.
In sostanza, se è vero che soprattutto in Italia c’è un grosso problema relativo alle retribuzioni di chi svolge un ruolo di vertice a tutti i livelli del nostro colossale apparato politico-burocratico, includendo tutto ciò che in un modo o nell’altro orbita intorno alla colossale spesa pubblica – laddove è quasi impossibile stabilire quanto tali retribuzioni abbiano un riscontro sul piano della reale efficacia del servizio reso – sta di fatto che, soprattutto dopo l’ubriacatura populista degli ultimi anni, basta un niente per scatenare in molti elettori la cosiddetta invidia sociale.
Invidia sociale di cui i grillini della prima ora sono stati i principali interpreti e che attualmente rappresenta un tema molto ricorrente per una sinistra politica e sindacale regredita ad un massimalismo che gli eredi del vecchio Pci avevano da tempo riposto in soffitta.
Inoltre, la questione si lega ad un’altra e molto coriacea illusione sulla quale gli stessi scappati di casa del Movimento 5 Stelle costruirono il loro fragile castello di carte fondato sulle buone intenzioni: l’idea che anche i ministri, così come chiunque svolga un ruolo politico, dovrebbero farlo per un puro spirito di servizio, con in testa l’unica ambizione di perseguire al meglio solo ed esclusivamente gli interessi della collettività, mettendo in assoluto secondo piano i propri, altrettanto legittimi interessi. In pratica, ci si aspetterebbe da chi amministra la cosa pubblica un atteggiamento totalmente altruistico e frugale, una sorta di francescanesimo dell’era moderna con il quale i ministri dovrebbero far concorrenza ai santi del Paradiso.
Pertanto, è con questo particolare brodo di coltura in cui una certa parte dell’elettorato vive e opera, nel quale domina in modo piuttosto abbozzato una visione costruttivistica della sfera politico-burocratica ( ovvero la credenza secondo la quale ogni aspetto della realtà dipenda da un azione deliberata della medesima sfera politico-burocratica), che chiunque si trovi nella stanza dei bottoni deve in qualche modo confrontarsi.
Pertanto, a prescindere dalle fondate obiezioni di chi è uso ad usare la logica e la razionalità, da quest’ultimo punto di vista la decisione del governo di recedere si basa sul presupposto di non regalare all’opposizione e alle sue grancasse mediatiche un comodo argomento per solleticare la pancia sempre agitata di una ampia fascia di italiani.
Ma la questione di fondo, a mio avviso, è un’altra e va ben al di là delle briciole risparmiate sui trattamenti economici dei ministri. Se, infatti, sono sufficienti le strumentali polemiche su tali briciole del Bilancio per far compiere una repentina retromarcia a chi, con molte ragioni, sostiene di voler cambiare la storia del Paese, nel caso di affrontare riforme sistemiche di grande impatto economico, che lontanamente ricordino la motosega di Milei nel ridurre l’evidente eccesso di spesa di uno Stato Leviatano che divora oltre metà della ricchezza nazionale, si terrà duro, costi quel che costi, o ci si calerà le brache secondo una certa tradizione della politica italiana? Alle nuove generazioni, a cui faceva riferimento tal Alcide De Gasperi, l’ardua sentenza.
Claudio Romiti, 18 dicembre 2024