La senatrice a vita Liliana Segre a 93 anni non si annoia: adesso è entrata “nell’Advisory Board di Intellettuali in fuga dall’Italia fascista”, progetto di ricerca dell’Università di Firenze per documentare “il prezzo in termini di risorse scientifiche e culturali pagato dall’Italia a seguito delle leggi razziali e, in generale, nel periodo fascista”. In sostanza, al di là della retorica delle “storie di vita in movimento” di quanti lasciarono l’Italia per motivi politici e razziali, trattasi dell’ennesima intrapresa per lucrare, non solo in termini ideologici, dunque di potere, su una aberrazione, nessuno lo discute, ma di ottanta anni fa. Ce n’era bisogno?
Per chi l’ha escogitata sì: il progetto riceve finanziamenti dalla Regione Toscana e sostegno, cioè ulteriori fondi, di una pletora di enti italiani ed esteri tra cui The New York Public Library e The Council for At-Risk Academics di Londra, The Central Archives for the History of Jewish People a Gerusalemme, l’Archivio Centrale dello Stato a Roma, The J. Calandra Italian American Institute a New York, e l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Così un progettino culturale diventa un potentato. L’antifascismo perenne come ricatto e come affare, viatico per occupazioni e carriere; l’antifascismo come educazione sarebbe cosa buona e giusta se storicamente non si fosse piegato all’esatto contrario, scuola di intolleranza, di faziosità, conventio ad excludendum e anche questa teoria dei giusti, dei moralmente sani si è inevitabilmente gonfiata nel migliorismo gramsciano e togliattiano prima, ripreso da Berlinguer, fino ad una rendita di posizione del coté intellettuale di sinistra.
Adesso l’Anpi, che di tutta questa storia è una dei principali beneficiari, da gendarme della memoria a punta avanzata del razzismo alternativo, strepita e ribolle perché il ministro all’Istruzione, Valditara, sembra non abbia intenzione di rinnovare l’accordo in scadenza sulla penetrazione negli istituti di ogni ordine e grado dei “valori della resistenza e della Costituzione”. Appaltati all’Anpi. “Un modo per mantenere vivi, discutere, divulgare e educare agli ideali di democrazia, libertà, solidarietà e pluralismo culturale. Nelle scuole italiane si sono fatti temi, concorsi, dibattiti appunto con i partigiani rimasti, sempre con storici e giuristi, così da non dimenticare le radici costituzionali”. Sì, con ospiti quali la stessa Segre, o il professor d’Orsi che è sempre una provocazione per i talk show e comunque protagonisti estremamente di parte.
Che non vuol dire il cerchiobottismo per cui invitare uno di qua e uno di là, un partigiano contro uno della Repubblica di Salò, queste sono appunto cose televisive, liturgie televisive, ma ha a che fare con una interpretazione che dal passato, più o meno prossimo, più o meno remoto, si estende al presente dell’antifà perenne, del berlusconismo come continuazione del fascismo e longa manus mafiosa, di chi, democraticamente votato, viene subito colto come usurpatore se non di sinistra ed estrema sinistra, della destra, anzi “le destre”, inesorabilmente le più pericolose, infami, nostalgiche di tutti i tempi.
Non prendiamoci in giro: l’antifascismo scolastico targato Anpi è sempre stata una delle armi propagandistiche più pervasive e spregiudicate, senza contraddittorio, sovente senza pezze d’appoggio, al pari del sindacalismo estremista e dell’egemonia culturale e dell’intrattenimento a prato basso dei canterini e dei guitti a sussidio pubblico. Non senza pagarci su ulteriori prezzi. L’Anpi si sdegna, protesta che l’attività educativa è a costo zero, dunque quella del governo, del ministro si risolverebbe in pura rappresaglia ideologica: può anche darsi, anche se il governo diremmo abbia urgenze assai più immani sulla testa, sta di fatto che, come al solito, la giostra implacabile di incontri, dibattiti, eventi non è gratuito, si regge necessariamente su emolumenti che partono dall’organizzazione e arrivano a tavola, dopo l’educational antifà e questo l’Anpi lo sa benissimo perché è una delle sue risorse.
Nella sua faziosità estrema questa associazione residuale, di reduci, non si è mai segnalata per equilibrio e misura, spesso è arrivata a sposare le posizioni più estreme e deliranti, al limite dell’insurrezionismo guerrigliero e con ostentata, immutabile complicità per le sedi scolastiche in cui si capovolgono le foto dei presunti fascisti attuali, se ne bruciano i fantocci, partono le lettere delle professoresse democratiche che si sentono di colpo in temperie diciannovista. Non è questo l’antifascismo di cui un Paese ha bisogno per meditare sulle su colpe, processo che comunque non si è mai interrotto in ottanta anni; l’ur-fascismo di Eco era solo una trovata rozza, benché ammantata in lini intellettuali, per poter dire: noi facciamo quello che ci pare, noi siamo i meglio a prescindere, abbiamo ragione a prescindere e non smetteremo mai di degradare in senso politico e umano chi non sta nel nostro cerchio.
Non è questo il confronto di cui la società e la scuola ha mai avuto bisogno, tanto più che la scuola italiana sull’antifascismo capillare ci è cresciuta. Mi sono seduto per la prima volta su un banco nel 1970, mi sono laureato nel 1992 e non c’è stato giorno, non c’è stato libro, pagina, lezione, docente, insegnante, materia, assemblea, incontro, ospite, occasione, pretesto che non mi abbia riportato all’immanenza dell’antifascismo più militante, più intollerante che democratico: al “Carducci” di via Beroldo, la scuola dove l’anno scorso han fatto la mostra dei ritratti del governo capovolti, dove ancor oggi i miei ex coetanei si scambiano allegre chat aspettando un nuovo Godot terrorista, “e ho trasmesso ai miei figli l’idea dell’antifascismo militante”, di fascisti non ce n’erano e toccava inventarseli: quelli antipatici al prof in odor di Autonomia, quelli che si facevano i fatti loro e correvano dietro alle ragazze, o non vestivano in un dato modo, o avevano gusti divergenti dal conformismo rivoluzionario, per esempio gli piaceva più Bach che Giovanna Marini.
Se poi leggevi Guareschi o Montanelli ti conveniva cambiare scuola, come il povero Sergio Ramelli che lo stesso non si salvò. Io non dimenticherò quell’erede dell’impero dolciario tra Italia e Sudamerica che girava per il liceo strappando i manifestini “fascisti” dei cattolici, non dimenticherò le stupide assemblee in cui si esaltavano “le ragioni dei compagni delle Brigate Rosse” che avevano fatto fuori Moro dopo la scorta – ed erano i figli dell’ottima borghesia di Foro Buonaparte, discoteca in casa e servitù alla porta, “il signorino sta riposando”.
Questo l’antifascismo in cui siamo cresciuti. È un miracolo se non sono passato dall’altra parte, ma il fatto è che l’antifascismo scolastico mi ha guarito da ogni fascismo, le sue prepotenze, le sue ipocrisie mi hanno reso insofferente a vita verso ogni militanza, ideologia, propaganda e quando mi vogliono togliere la libertà me ne accorgo subito: comincia sempre al solito modo, comincia con la predica virtuosa dello stato, o chi ne fa le veci che si preoccupa per me. Gli amici un po’ mi sfottono, dicono che sono un disadattato cui non va mai bene niente e nessuno: hanno ragione ma io questo fardello lo porto volentieri, so esattamente dove e quando cominciò a crescere in me.
Max Del Papa, 19 settembre 2023