Oggi non arriva, forse arriva domani, sicuramente arriva dopodomani. Per afferrare il senso (ammesso vi sia) di queste giornate istericamente uguali a loro stesse, forse bisogna uscire dalla dimensione della politica, ed entrare in quella del teatro. Dell’assurdo. La crisi di governo come Godot nel capolavoro di Beckett. Perennemente annunciata, perennemente attesa, perennemente rinviata. È più o meno da quando è nato l’ircocervo inedito del governo gialloverde, che i due contraenti del mitologico “contratto” (un modo di dire “inciucio” aggiornato all’era social) sono in procinto di spaccare.
Del resto, rappresentano due visioni d’Italia radicalmente inconciliabili. L’Italia della flat tax, dei capannoni, delle piccole e medie imprese stritolate dal combinato disposto tra la vessazione burocratico-fiscale di Roma e quella di Bruxelles. E l’Italia del reddito di cittadinanza, dell’assistenza come obbligo sociale da scaricare sulle mammelle di mamma-Stato (quindi in ultima istanza sulle tasche del contribuente), del blocco dei cantieri e ora perfino del salario minimo, oscenità parasovietica benedetta anche dalla neopresidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. Non a caso, votata dai grillini e osteggiata dalla Lega. E si potrebbe andare avanti all’infinito: le manette facili versus la riforma della giustizia, il carcere per gli evasori versus la pace fiscale, Maduro versus Guaidò… Ora s’aggiunge perfino la lacerazione umana. Salvini che tuona “è finita la fiducia personale”. Di Maio che strilla “ci avete pugnalato alle spalle”. E niente, non accade letteralmente niente, in un continuo buco nero infinito della politica e della logica, con due leader che perseverano a coltivare priorità opposte, perseverano ad aggredirsi anche personalmente, e perseverano a sedersi fianco a fianco nel successivo Consiglio dei Ministri.
Ci vorrebbe Kafka, o forse Dino Buzzati col suo “deserto dei Tartari”, per raccontare un tale controsenso prolungato, una tale sospensione amplificata, un tale surrealismo estremo. Ogni sera è la sera della guerra definitiva, ogni mattina è la mattina della pace temporanea (ma rispetto a cosa, poi?). Viviamo in un noiosissimo eterno presente, in cui l’Apocalisse viene sempre evocata e non arriva mai, un logorio collettivo dei nervi in assenza di qualsiasi scopo. Faremmo bene a mandare al diavolo lorsignori, saltare a piè pari tutto il primo sfoglio dei giornali e tutte le notifiche Facebook sul tema, aprire un classico della letteratura, andare al cinema, vivere. Faremmo bene a smettere di occuparci di politica, non fosse che, purtroppo, la politica continuerebbe in ogni caso a occuparsi di noi. E allora avanti, fino al prossimo (pen)ultimatum.
Giovanni Sallusti, 19 luglio 2019