Società

Che orrore fabbricare un bimbo ibrido metà figlio e metà nipote

Ana Obregon “madre” e “nonna” a 68 anni con l’utero in affitto e lo sperma del figlio morto

Il comandamento del neoliberismo tecnologico è uno solo: se una cosa si può fare, allora va fatta. Vale per tutti, i multimiliardari che vogliono svitare la testa al mondo e riavvitargliela alla rovescia, e le dive o divette che non si rassegnano allo scorrere del tempo. Tra questa la spagnola Ana Obregòn, personaggio televisivo e del cinema che alla soglia dei 70 anni ha preteso e ottenuto un bambino “surrogato” come si dice per non dire scelto sfogliando un catalogo di uteri, ordinato, pagato e ritirato. Arroganza che ha fatto discutere perfino nella Spagna occidentale, europea, globalizzata abituata a digerire le scelte avventate e magari barbare: “Una forma di violenza contro le donne”, l’ha bollata la ministra dell’Uguaglianza Irene Montero, socialista.

Al che la diva oltre l’età della ragione: “Le persone qui sono di mentalità aperta, ma in Spagna, mio Dio, siamo nel secolo scorso”. Quando una cosa è discutibile basta ammantarla di progresso e subito le vestali della sinistra possibilista e scientista ammutoliscono, l’altare della modernità è di quelli che non si discutono: anche per i vaccini si dice così, a quattro, a dieci alla volta, anche per la carne sintetica che è il nuovo business di Bill Gates, uno che, saturato il mondo di marchingegni ludici, ha saputo invaderlo con i sieri e altre diavolerie chimiche. E si vedeva la settantenne Obregòn uscire da una clinica, o uno studio televisivo, a bordo dei labbroni rifatti, con in braccio il pargolo assemblato e ritirato e non si capiva se quella nonna madre fosse uno scherzo di natura a sua volta o il trionfo della modernità demoniaca che chiude le bocche e reca le sue vittime, viventi, sull’ara dello sviluppo e del profitto.

Quale sviluppo, poi, è difficile dire. Tutto quello che si può fare, ebbene che si faccia e dopo ci si spinga ancora oltre, fino all’impensabile, al parossistico e al macabro: adesso si scopre che il bambino della mamma nonna è un ibrido a metà fra un figlio e un nipote, è stato per così dire ricavato dallo sperma del figlio reale, biologico della Obregòn, scomparso qualche anno fa. Di più, sarebbe stato precisamente il desiderio del giovane in articulo mortis. Ragione per cui la conduttrice e attrice “non esclude” altri figli surrogati dal seme del figlio. C’è da perdersi nei meandri di questa tecnoscienza distopica, che non lascia riferimenti certi, non lascia scampo: cosa è questa smania luciferina? L’eternità derivata? L’irresponsabilità di stampo infantile di cui godono i ricchi e i potenti, gli emersi a vario titolo che la esibiscono per farsi riconoscere come tali?

Quello che è più deprimente è che è diventato praticamente inutile discutere di temi etici o escatologici: se poni il problema della sacralità o almeno del semplice rispetto della vita, dell’opportunità di inoltrarti nella fase finale del tuo tempo nel modo più assurdo, più spregiudicato, se poni le classiche questioni sulle quali la filosofia e la religione hanno eretto le cattedrali di pensiero che hanno guidato le società in venti, trenta secoli, ti senti rispondere: ma andiamo, non siamo mica nel secolo scorso. Un livello miserabile, una ripulsa di ogni comprensione che sconcerta, che spaventa. Tanto più in gente di settanta anni. Ma che gli fa? Loro possono, la tecnoscienza glielo consente, il portafoglio non glielo nega e non hanno nessuno scrupolo nel trasformarsi in Frankestein: loro e i figli che non hanno, che millantano di avere, in una prosecuzione della transitorietà naturale, fisiologica che non è reale, non trasmette niente se non una pretesa faustiana. Già è difficile, perché contronatura, immaginare un figlio di neppure trent’anni che, morendo, chiede alla madre: estrai vita dalla mia morte, fai figli da tuo figlio. Ma quando la madre stessa lo asseconda, quando salda l’ambizione delirante del figlio perduto alla sua personale megalomania, siamo al punto di non ritorno, alla disumanizzazione irreversibile.

Tutto questo si risolve chiamandolo amore? Ana Obregòn non ha scrupoli e non ha problemi: “è tutto in regola” precisa nel legalismo formale che piace al neoliberismo irresponsabile e sa già come cavarsela quando un giorno sua figlia le chiederà, come in una canzone dei Pearl Jam: “Ma io di chi sono davvero figlia? Merito davvero di vivere?” “Tuo papà è in cielo e prima che tu arrivassi era ciò che più desiderava al mondo, e tua mamma è una donatrice, e basta. Che problema c’è?”. E basta.

È difficile vivere oggi in mezzo a simili sempre meno simili, che ricordano degli zombie; ancora più complicato è vivere facendo politica, stante il travolgimento, a mo’ di piena o di valanga, di tutti i valori superstiti oltre ai modi di condursi, di esistere sedimentati in epoche di modernità possibile. La Sinistra, l’abbiamo visto, è in chiara difficoltà, lacerata fra culto progressista e tutela almeno formale deelle minoranze oppresse; la Destra gioca di retroguardia ma è disorientata, si arrocca nelle considerazioni nostalgiche, nelle elucubrazioni più o meno forbite e snobistiche. È forse la prima volta che si assiste ad un attacco così totale, radicale e concentrato nel tempo, come se tutto fosse da distruggere, da cancellare fin nella memoria, come se il tabula rasa fosse l’unica soluzione e urgente, indiscutibile e improrogabile.

Ma dopo il tabula rasa che resta? Nessuno se lo chiede, non è questione che appassioni i sommi sacerdoti del nuovo vivere. Neppure la star Ana Obregòn si pone il problema di un figlio che avrà dieci anni quando lei ne avrà 80: non fanno così anche le rockstar, non facevano così Charlie Chaplin e Pablo Picasso? E allora perché formalizzarsi, perché arrestarsi davanti alle infinite possibilità della scienza dei balocchi e degli incubi?

Noi non sappiamo come intendere questa vecchia soubrette che stringe un figlio prenotato come una pizza, se una madre, una nonna, uno zombie o una donna lungimirante che vive “nel senso della storia”, come usavano dire un tempo i marxisti. E non sappiamo come intendere questo infante che dorme beato e il suo sonno ricorda ancora, a Dio piacendo, quello di tutti i bambini di tutti i tempi. Sappiamo però che, a forzare le leggi di natura, a sostituirsi alla natura delle seminagioni e dei raccolti, ai suoi cicli, ai suoi ritorni, a lungo andare non si ottiene niente di buono perché, chiamalo come vuoi, karma, Nemesi o il biblico Jahvè, prima o dopo Qualcuno s’incazza e, come scriveva Giovannino Guareschi, “sposta l’ultima falange del dito mignolo di un milionesimo di millimetro e tutto va all’aria”. E allora tutta la insostenibile leggerezza di Ana Obregòn, “che problema c’è”, non varrà più niente.

Max Del Papa, 6 aprile 2023