di Giancarlo Palombi
“Con il rientro dell’ultimo militare italiano, avvenuto nel rispetto della sicurezza del nostro contingente, si è conclusa ufficialmente la missione italiana in Afghanistan”, Roma 30 giugno 2021. Con queste poche righe, rilanciate dalle agenzie di stampa, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha annunciato la fine della missione militare italiana in Afghanistan. Una missione costata, in termini di vite, 53 morti. Cinquantatré bare rientrate avvolte nel Tricolore. Cinquantatré uomini, molto spesso ragazzi, che hanno servito il Paese per quella missione di pace ma tale mai è stata.
Eppure al rientro del Comandante della Brigata Folgore insieme all’ultima aliquota di uomini e soprattutto alla bandiera italiana, nessuna autorità né politica tantomeno militare è stata presente. Nessuna cerimonia. Non un rappresentante delle istituzioni ad accogliere il contingente atterrato all’aeroporto militare di Pisa. Venti anni di presenza in una terra ostile, 753 feriti e la sensazione che tanto non basti alla dignità di un saluto. “Può darsi che sotto un punto di vista regolamentare o di cerimoniale non esista a riguardo nessun obbligo, ma è chiaro che l’assenza in questione è assolutamente inaccettabile quanto meno sotto un punto di vista etico e morale”, così il generale Domenico Rossi, ex sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito scrive sui social.
Ma perché era tanto importante accogliere gli ultimi soldati di rientro da una missione? In un’Italia dove lo sventolare del Tricolore è accettato solo se per manifestazioni sportive, altrimenti si rischia l’etichetta di fanatici nazionalisti, essere presenti significava indirettamente dire grazie non all’ultimo plotone di paracadutisti ma alle migliaia di uomini e donne che si sono avvicendati e che hanno operato per venti anni in ambito internazionale, alzando però tutte le mattine al cielo il nostro Tricolore. In guerra, perché seppure l’Italia non conosca l’orrore di un conflitto bellico dal 1945, è allo stesso tempo vero che i morti in uniforme nelle missioni all’estero non sono un ricordo del secolo scorso.
Essere presenti significava continuare a rendere il doveroso omaggio ai nostri morti in quella terra lontana, morti per dare speranze di vita ad un paese martoriato, per ricostruire le infrastrutture e i servizi necessari, per dare la possibilità alle bambine e alle donne di istruirsi e acquistare maggiore dignità e rispetto e per tanto altro. Essere presenti significava ribadire alle famiglie dei caduti non vi dimenticheremo, non dimenticheremo chi ha offerto la vita per rispettare il giuramento alla Patria. Già, la Patria, quella parola che per tanti, molti, oggi ha connotati politici da censurare. Eppure essere presenti al rientro in Italia del Tricolore significava far sentire, al di là dei discorsi retorici e delle parole ufficiali, l’affetto di un Paese nei confronti dei suoi figli con le stellette.
“Mi vergogno”, scrive ancora su Facebook il generale Rossi “Mi vergogno soprattutto come Italiano, cioè come cittadino di un Paese che non ha avuto la sensibilità di pensare ai nostri figli, mentre con gli Europei di calcio in corso su tanti balconi sventola il Tricolore”. ‘Io non mi sento italiano’, cantava Gaber, ‘ma per fortuna e purtroppo lo sono’.