Continua ad infiammarsi il dibattito tra Palazzo Chigi ed opposizioni sul salario minimo. Dopo l’iniziale posizione tranchant di Giorgia Meloni, che nel primo scontro parlamentare con Elly Schlein aveva bocciato qualsiasi apertura alla misura; una prima e timida avanzata è però arrivata nelle settimane scorse, poi ribadita anche ieri. “Io ho aperto al dialogo sul salario minimo, ma non credo ad una opposizione dialogante, a buona parte dell’opposizione qualsiasi cosa tu faccia non va bene”, ha affermato la premier durante un’intervista a SkyTg24.
Una parziale revisione, quindi, di quelle che erano le posizioni iniziali della leader di Fratelli d’Italia, che da sempre ha negato un’eventuale adozione del salario minimo per almeno due ragioni. Da una parte, causa la forte estensione della contrattazione collettiva in Italia; dall’altra, invece, perché lo strumento rischierebbe di diventare un parametro sostitutivo, piuttosto che aggiuntivo, portando al paradosso di rivedere al ribasso i salari dei lavoratori.
Lo studio sul salario minimo
Ma al di là delle posizioni già ribadite dalla premier, ci sono altre ragioni per dire no al salario minimo. E ad elencarlo è lo studio elaborato da Fiscal Focus che ha delineato “gli oneri posti a carico del datore di lavoro e il calcolo utile a pervenire alla determinazione della retribuzione oraria netta spettante al lavoratore dipendente”.
Le analisi hanno preso in considerazione tre scenari differenti. Il primo, chiamato Retribuzione 1, pari a 7 euro l’ora percepiti dal dipendente; il secondo, Retribuzione 2, che corrisponde a 8 euro l’ora; ed infine lo scenario da salario minimo secondo l’attuale proposta di legge, ovvero pari a 9 euro l’ora. Ebbene, i risultati sono a dir poco sconcertanti: sia il datore di lavoro che il subordinato, infatti, pagheranno più tasse ed “avranno diritti a benefici fiscali decurtati di cui dovranno farsi carico”.
Chi ci guadagna realmente
Lo studio dimostra infatti come, nella simulazione fiscale del dipendente per scenario di retribuzione lorda 9 euro l’ora, il totale delle imposte andrà a corrispondere a circa 2.900 euro contro i 2.080 ed i 1.420 euro rispettivamente della Retribuzione 1 e 2. Ovviamente, a giovare di tutto ciò è proprio lo Stato italiano, che andrà ad incassare di più sia dall’extragettito che dal taglio alla spesa sociale. In tale ambito, si legge nello studio, “il netto percepito annualmente dal lavoratore passa da 15.303 euro per 7 euro lordi l’ora a 18.601 euro per 9 euro lordi l’ora”. Eppure, “tale aumento non considera la perdita di eventuali benefici derivanti da politiche di sostegno e che ora saranno, o totalmente o parzialmente, in capo al lavoratore in seguito all’aumento del reddito complessivo”.
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A ciò, si aggiungono anche gli svantaggi della parte datoriale, che in uno scenario da salario minimo non solo dovrà sopportare un appesantimento dei costi datoriali nella misura del 28-30 per cento, a seconda della posizione contributiva aziendale e del tasso di premio Inail dovuto, ma dovrà dar conto anche del rischio di una nuova organizzazione aziendale, ovviamente “a scapito del numero dei lavoratori attualmente impiegati”. Un’arma a doppio taglio, che quindi pare essere funzionale solo per lo Stato, che non solo andrebbe a guadagnare dal gettito diretto (come già detto), ma si dovrà tener conto anche dei soldi risparmiati in termini di sussidi e welfare, “che saranno in capo al lavoratore totalmente o parzialmente a seguito dell’aumento del reddito”.
Perché una famiglia ci perde
Lo studio di Fiscal Focus ha sviscerato tutti questi dati tenendo in considerazione anche l’incisione del salario minimo sulle politiche di natalità. Ed è proprio rapportando i due ambiti, che si delinea le vera fregatura della misura. “Una coppia monoreddito con un figlio sotto i tre anni, passando da 7 euro lordi l’ora a 9 euro lordi l’ora, perde 108.8 euro mensili in assegno unico universale, ovvero 1305.6 euro di sostegno alla natalità su base annua che prima gli spettava. Nel contempo, si dimezza anche il trattamento integrativo Irpef, che passa da 1.064 euro a 500 euro annui”, afferma lo studio che poi riassume: “Questo significa che una retribuzione annua di 18.602 euro si snellisce fino a 16,746.4 euro, per via della parziale riduzione di sostegni fiscali prima spettanti”. Da qui, lo Stato va a risparmiare quasi 2.000 euro di di assegno unico universale e trattamento Irpef, incassando inoltre 1.800 euro annui a titolo di contributi assistenziali e previdenziali.
Uno scenario ben diverso rispetto a quello del lavoratore che percepisce 7 euro netti l’ora, dove la sua retribuzione annua netta si assesta a 15.393,94 euro, a cui si aggiungono circa 3.000 euro di assegno unico universale su base annuale e 1.064 euro di trattamento integrativo Irpef, per un totale di poco meno di 4.500 euro di sostegno statale complessivo.
Matteo Milanesi, 30 luglio 2023