Le democrazie mostrano sempre di più i tratti aristocratici della tecnocrazia. In nome della competenza e della scienza un gran numero di corpi tecnocratici si appropria delle decisioni pubbliche con la complicità di una classe politica pavida e irresponsabile. Nuove burocrazie, task forces, comitati e magistrature, nazionali e sovranazionali, regolano e dirigono la vita dei cittadini dando vita ad un paternalismo tecnocratico che circoscrive le libertà individuali. Più che di democrazie liberali è oramai il tempo di parlare di tecno-democrazia.
È questo il tema che si trova al centro del recente e attualissimo libro di Lorenzo Castellani L’ingranaggio del potere (liberilibri), soprattutto in questi tempi complicati in cui tutto ciò che è tecnico-scientifico egemonizza, in maniera più o meno diretta, le decisioni politiche. C’è un razionalismo costruttivista che sembra affliggere questo sistema tecno-democratico, con una élite sempre pronta a cadere nell’illusione di poter centralizzare tutta l’informazione e d’infondere dall’alto le proprie regole di funzionamento della società.
Il significato politico del costruttivismo razionalistico, tanto diffuso nei nostri regimi politici, è evidente: il tecnocrate che sostiene di avere individuato il sistema migliore per rivoluzionare l’intero impianto sociale, dandogli una forma più razionale, è costretto in verità ad imporre agli altri individui quel determinato modello, tentando di modificarne le menti e le credenze in maniera funzionale al suo scopo. Una pretesa dirigista che, però, incorre spesso in clamorosi fallimenti politici.
Quest’illusione tecnocratica si nutre dell’idea che la povertà o la scarsità di risorse o il disordine dipendano dalla mancanza di competenze e di pianificazione, invece che dalla mancanza delle libertà e della cultura. Nel governo dei competenti, la conoscenza s’impone sul sistema.
L’intolleranza dei tecnocrati verso i limiti della conoscenza, ovvero verso l’accettazione dell’incertezza ineluttabile che emerge dal mondo che ci circonda, può portare a due deleterie tendenze speculari: una che confida nella sapienza assoluta di un super organo tecnico-scientifico che sia in grado di tutto sapere e di tutto ordinare; l’altra che ritiene che se non si può conoscere nulla per intero, allora quello che ciascuno pensa è equivalente a quello che pensa chiunque altro.
L’epoca del cosiddetto del neo-liberalismo è stata, in parte, una delusione sia per i suoi critici, ostinati a non vedere i danni recati dalla pervasività dei poteri pubblici alla legittimazione politica; sia per alcuni suoi sostenitori, che hanno scambiato la liberalizzazione economica e finanziaria per l’intera teoria liberale, e non per una parte di essa, dimenticando quanto siano importanti la separazione, la limitazione, la prossimità del potere politico per il sistema della libertà.
Difatti, i comitati, le commissioni, i tribunali, i regolatori si sono moltiplicati su scala nazionale e sovranazionale; lo Stato si è frammentato e disperso su molteplici livelli, ma è un moloch ancor più imponente che in passato. L’autogoverno federale e il principio no taxation without representation appaiono oggi sempre più sacrificati a favore di istituzioni tecnocratiche e burocratiche. Emerge qui forse una regolarità della storia della politica: il potere cerca sempre di mettersi in maschera e rendersi irresponsabile.
In fin dei conti, la tecno-democrazia è un sistema costruito sulla fuga dalla responsabilità delle classi dirigenti che, di contro, alimenta l’irresponsabilità dei governati.
Michele Silenzi, 26 novembre 2020