Sulle Generali, la più importante istituzione finanziaria italiana con Intesa-SanPaolo, si sta combattendo una battaglia finanziaria di altri tempi. Da una parte due importanti azionisti privati, Caltagirone e Del Vecchio, forti di sei miliardi investiti di tasca propria nella società e che vorrebbero scegliere i vertici. Dall’altra parte il primo azionista, Mediobanca, che storicamente è stato molto geloso dell’indipendenza della compagnia, financo dai suoi azionisti. In mezzo il mercato degli investitori internazionali e l’amministratore delegato, Philippe Donnet, che fino ad ora non ha deluso le aspettative sui risultati portati a casa.
Questa sintetica descrizione probabilmente non soddisfa nessuno dei tre attori della partita: ognuno di loro vuole spostare l’asse del prossimo consiglio di amministrazione a proprio favore.
Si rischia però di perdere un punto di vista più complessivo. Le Generali detengono la bellezza di 60 miliardi di euro del nostro debito pubblico: più o meno il dieci per cento dei loro attivi. Non si tratta di un dettaglio tecnico. Ma di una circostanza che il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha bene in mente. Unicredit, circa cinque anni fa, fece scalpore cedendo, per poco più di tre miliardi di euro, il suo gestore di risparmio gestito ai francesi di Amundi. È il mercato, bellezza.
Ma quello dei titoli di Stato è un mercato drogato. Con la Bce che compra Btp a rotta di collo (un quarto circa del nostro debito è nei suoi forzieri digitali) e che prima o poi smetterà di farlo. Un mercato, come avvenne durante la crisi del 2011, in cui un grosso investitore che volesse mettere in ginocchio la nostra fragile finanza pubblica, potrebbe vendere sul mercato un pacchetto di Btp.