Fra meno di un anno avremo un nuovo Presidente della Repubblica. Anche se la storia ci insegna che mai come in questo caso si rischia di entrare in conclave, o semplicemente nell’aula con le camere e i rappresentanti delle regioni riuniti in seduta comune, come papi ed uscirne come cardinali, è poco realistico non credere che le “grandi manovre” non siano già iniziate. Coinvolgendo soprattutto il Pd, il partito del deep state, l’erede dei partiti della Prima repubblico e l’ossatura ancora oggi dell’establishment. In quest’ottica va perciò inquadrata, non necessariamente in un rapporto di causa-effetto, anche la nomina a segretario del partito di Enrico Letta. Che Letta sia il più coerente epigono di quello che fu l’Ulivo, e che sia ancora oggi legato a filo stretto con Romano Prodi, non è un mistero. Così come non lo è il fatto che al professore bolognese ancora brucia quella “congiura dei 101” che, organizzata o no che fosse da Matteo Renzi (ove c’è congiura quasi sempre c’è Renzi!), affossò sette anni fa la sua elezione, che sembrava cosa fatta, al soglio quirinalizio. Che il desiderio di rivincita sia forte e che egli, insieme a Mario Draghi, sia l’unico italiano ad avere un curriculum significativo anche a livello europeo (banchiere centrale l’uno, presidente di Commissione l’altro), sono tutti elementi che ne fanno ancora oggi decisamente un “papabile” (e continuiamo nella metafora pontificia anche perché il palazzo in cui siede il nostro Presidente della Repubblica, e prima i re d’Italia, si presta particolarmente).
C’è però un elemento che differenzia fortemente l’europeista Prodi dall’europeista Draghi, e non è un dettaglio. Tanto da far sembrare una consumata ipocrita la rivendicazione (a parole) di un draghismo puro e duro da parte del nuovo inquilino del Nazareno. Prodi ha infatti operato in Europa per lo più nel decennio precedente a quello di Draghi, e cioè nel periodo di massima espansione di quell’ideologia globalista e astrattamente progressista che ha fatto della globalizzazione la leva dell’espansionismo cinese. E della Cina Prodi resta a tutt’oggi il politico occidentale, insieme forse al tedesco Gerald Schroeder, più amico: un vero e proprio sponsor, al massimo livello, di quegli affari cinesi in Europa che tanto piacevano ai grillini di governo. Un “partito cinese”, d’altronde, è ben visibile in tutta l’Europa ancora oggi, e si è spesso mosso con abilità negli ultimi anni nelle pieghe di un antitrumpismo ostentato da Angela Merkel e da Bruxelles. Il fatto è che il “problema cinese” per gli Stati Uniti, per lo “stato profondo” di quel Paese prima che per i singoli Presidenti che si alternano alla White House, è diventato sempre più un discrimine geopolitico e di sicurezza nazionale, tanto che Joe Biden non sta facendo altro che trarne le conclusioni pratiche già impostate da Donald Trump con un voto bipartisan del Parlamento. Mettendo in evidente difficoltà molti vertici europei, che con la Cina sono in affari e non hanno piacere a rinunciarvi. Un Prodi al Quirinale sarebbe per gli americani qusi una bestemmia, mentre Mario Draghi come presidente del consiglio dà già oggi le massime credenziali nella linea di un atlantismo rivisto e rafforzato.