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Chi minaccia davvero la libertà di stampa

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Ci sono due modi per minacciare i giornalisti, condizionarli, intimorirli, insomma per torcere la libertà di stampa (e con stampa qui intendiamo anche radio, tv e nuovi media). Una è quella un po’ brutale di metterli in galera e di additarli in conferenza stampa o via post Facebook. L’altra è quella più raffinata, certamente più vicina ai “valori europei”, nonché assai ipocrita, di agire sotto traccia: lamentarsi prima con il direttore della testata poi, in caso di recidiva, di parlare direttamente con il proprietario che, in buona parte dei casi imprenditore in mille altre attività, avrà degli interessi da tutelare che attendono via libera da governi sia del proprio paese che degli altri. O credete che le ambasciate chessò francesi e tedesche non abbiano rapporti con giornalisti od editori?

Cosi, se a molti sembra scandaloso che i giornalisti ungheresi non possano accadere negli ospedali per capire cosa succede ai malati di Covid19, sappiamo che analoghi problemi registrino quelli di paesi legati ai “valori Ue”. E se i dati su infettati e morti forniti dalla Russia non convincono, molti dubbi ci sono pure su quelli diffusi dalla Germania. Mentre anche l’uomo della strada ormai ha capito che i morti cinesi sono almeno dieci volte di più, ma quasi nessuno lo dice. A minacciare la libertà di stampa sono del resto  solo Putin, Orban e Trump mentre su parecchi giornali legati ai “valori europei” si dipingono ritratti commossi del caro leader Xi, come noto un adepto della libertà.

In molti casi tuttavia neppure è necessario minacciarli, i giornalisti. Che, naturaliter di sinistra nel 90% apprezzano molto gli inviti a pranzo o a cena, assieme ai loro colleghi, per discutere con i presidenti “umanisti”. Bill Clinton era un maestro in questo, anche se ai suoi tempi esisteva ancora un giornalismo non di sinistra e quindi la sua vita fu mano facile dei suoi epigoni Obama e Macron: le colazioni alla Casa Bianca e all’Eliseo, con i vari “dear Barack” o “cher Emmanuel” (solo i poveri non possono dare del tu al presidente) hanno sortito nelle storia articoli che non avrebbero sfigurato sul “Rodong Sinmun”, giornale dei lavoratori, organo del Partito del Lavoro di Corea (del Nord): peccato apparissero su  “Washington post” o “Le monde”, ma anche sul teoricamente conservatore “Figaro”.

In Italia poi sempre un po’ peggio. Nel nostro paese il giornalismo è sempre stato una variante della lotta politica. Non per niente prima nascevano i giornali e su questi i partiti: dall’ “Avanti!” nacque il Psi, dal “Popolo d’Italia” di Mussolini  il Pnf , dall’”Ordine nuovo” di Gramsci il Pci. Tipicamente italiano poi il vezzo del giornale partito, cioè di un quotidiano che, pur restando teoricamente nella sfera della informazione, influenzi i partiti persino nei suoi organigrammi: a Luigi Albertini, mitico direttore del Corriere della Sera, inventore della idea, l’opera non riuscì, mentre invece fu più fortunato Eugenio Scalfari, che con Repubblica diventò per molti anni il cervello del Pci-Pds-Ds-Pd.

Di fatto in Italia poi, più che il valore sacro della libertà di stampa, vale quello del tengo famiglia. Mussolini non fece molto fatica a convincere i proprietari dei giornali a sostituire i direttori invisi: ma pochissimi li seguirono quando diedero le dimissioni, e alcuni neppure lo fecero, diventando da antifascisti a fascisti nel giro di un mattino. In genere poi la cacciata era sempre accompagnata da uscite sicurezza ben redditizia, a parte il povero Mario Missiroli – Albertini era ricco di suo, potè vivere di rendita. Ma anche nella prima e nella Seconda Repubblica interventi su direttori e sulla proprietà da parte di presidenti del consiglio si sprecavano.  E senza alcuna differenza tra destra e sinistra, se non questa: che essendo i giornalisti vieppiù di sinistra, il loro tasso di criticismo quando a Palazzo Chigi c’erano amici dei comunisti o dei post si abbassava miracolosamente. Altro è il tema della tv pubblica, che meriterebbe discorso a latere.

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