Ci sono alcune cose che quando vanno bene non si discutono. Una di queste è la Borsa. Nei primi tre mesi dell’anno quella italiana ha recuperato tutto il terreno perso nel 2018. Anzi ha fatto qualcosina di più: in novanta giorni l’indice dei titoli principali ha guadagnato il 18 per cento. Niente male. Sui giornali non si usa strillare titoli del tipo: «Il mercato ha creato 100 miliardi». Esattamente ciò che è successo dai minimi del mercato dell’anno scorso. È più facile titolare, quando avviene: «La Borsa ha bruciato tot miliardi». In effetti né l’uno, né l’altro titolo hanno un gran valore. Per carità fanno capire dove stiamo andando: ma fino a quando non si vende, i guadagni e le perdite di Borsa sono solo virtuali. Tutte le Borse mondiali, più o meno, stanno andando bene. Nonostante l’economia reale non sia in gran forma.
E il paradosso è che le due economie più traballanti, quella italiana e quella inglese, hanno mercati finanziari che stanno facendo meglio degli altri. Nel nostro caso si può sempre dire, che il mercato dei titoli è talmente piccolo (la capitalizzazione è circa un terzo del Pil) e molto concentrato su alcuni settori (il bancario) per cui non rappresenta una buona rappresentazione dell’economia reale. Discorso che non vale certo per il mercato inglese, il più importante d’Europa, e che per di più rischia di essere compromesso dalla prossima uscita del Regno unito dal passaporto europeo.
Anche dello spread non si discute più: si è stabilizzato, ma su un gradino più alto del recente passato. Esso viaggia a circa 260-270 punti, il che vuol dire che i titoli a lungo termine italiani pagano un interesse del 2,6-2,7 per cento in più di quelli di pari durata tedeschi. In questo caso non si può certo sostenere di essere al sicuro. Sia pure le cose rimanessero su questi livelli, si tratta pur sempre di un aumento del costo del debito di almeno un punto percentuale, rispetto agli anni d’oro. Su 1.850 miliardi di titoli pubblici in circolazione, si tratta di cifre che è un peccato sciupare solo per pagare interessi.
È molto interessante a questo fine, leggere con attenzione uno studio realizzato da Chiara Cremonesi e Luca Cazzulani per il centro studi di Unicredit. Mettendo insieme banche dati diverse e facendo delle approssimazioni molto verosimili, viene scattata una foto, la più accurata, di chi detenga i nostri titoli. Un’istantanea molto utile per capire come sono fatti i nostri creditori, e le loro possibili reazioni. Rispetto alla fine degli anni ’80 in cui solo il 4 per cento del debito era in mano straniera, oggi circa un quarto è roba loro. Formalmente 578 miliardi sono detenuti all’estero (circa il 30 per cento dei titoli), ma se si vanno a togliere quegli investitori italiani, domiciliati all’estero per motivi fiscali (principalmente Lussemburgo e Irlanda), il volume di Btp all’estero scende al 24 per cento del totale e cioè 465 miliardi. È questo il numeretto d’oro. Quello più sensibile ai nostri pasticci politici e finanziari e siamo al tasso più basso dal 1998.
Lo studio di Unicredit va ancora più a fondo. La Banca d’Italia ci dice per filo e per segno come sono distribuiti i Btp in Italia (banche, privati, fondi e così via), ma non all’estero. Veniamo così a scoprire che poco meno dell’80 per cento del nostro debito piazzato fuori dalla penisola è in paesi euro. 130 miliardi sono in Francia, seguita da 90 in Germania e da 80 miliardi in Spagna (peraltro l’unico paese che ha aumentato la sua esposizione verso il nostro paese tra il 2017 e il 2018). A detenere i nostri Btp, sono istituzioni ufficiali, finanziarie e banche. Ridottissimo, si stima, l’investimento diretto delle famiglie.
D’altronde le stesse famiglie italiane comprano pochi Bot e Btp, tanto da detenere circa il 6 per cento del nostro debito.
La morale è che Francia e Germania con le loro istituzioni e banche posseggono più del 10 per cento del nostro debito e dal loro punto di vista non hanno gran voglia di correre rischi. E detto per inciso a noi fanno un gran comodo: le famiglie, se non forzate, non hanno più appetito per i nostri titoli di Stato.
Nicola Porro, Il Giornale 6 aprile 2019