In Europa la fanno ballare, in Italia Giorgia Meloni deve ballare da sola per poter governare. Con Parigi e Berlino che ci fanno marameo, Bruxelles che ci bacchetta per il Pnnr da ridisegnare su energia e telecomunicazioni, il Premier scende in pista in prima persona dopo aver esautorato, de facto, due dei suoi ministri più gettonati, Adolfo Urso, ministero delle Imprese, e quel brav’uomo della Sicurezza energetica e Ambiente, Pichetto Fratin. Urso l’hanno lasciato giocare assieme ad Alessio Butti con le tlc, ma la materia è talmente ostica che nessuna soluzione praticabile è stata trovata.
Intanto Tim va in “down” per l’aumento dell’interconnessione con l’estero, almeno così dicono e “toppa” gli aggiornamenti dei decoder Timvision di proprietà del cliente. Dal tavolo approntato si erano già defilati dirigenti di primo piano del Mef e di Palazzo Chigi: si suppone perché non consideravano adeguato il capo di gabinetto di Urso, Federico Eichberg, il quale nella vita si è occupato più di Opus Dei che di reti telefoniche. Nel frattempo avanza la guerriglia tra soci italiani, francesi e fondi di mezzo mondo. Sull’energia, Meloni ha dimostrato consapevolezza dell’importanza del tema convocando un summit con gli Ad di Eni, Snam, Enel e Terna, oltre ad una pletora di ministri, mandarini e funzionari (troppi). Il più interessato, Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia, era invece collegato in video call. Con il suo stile di governo Giorgia è salita in cattedra e, tra un’occhiataccia e una risata, ha messo tutti in riga. Gira e rigira, sembra proprio che l’unico del quale ha davvero considerazione sia Raffaele Fitto, ministro per gli Affari europei e il PNRR.
All’interno del summit, il Premier si è anche gustata lo scazzo tra l’Ad di Eni Descalzi e quello di Snam Venier su chi ha “il tubo del gas più lungo”, nel senso di quanto tempo ci vuole per costruirlo. Al vertice mancavano due interlocutori, fondamentali evidentemente solo sulla carta: l’esperto del settore nonché ex ministro Roberto Cingolani e, vista la rilevanza dell’argomento, “trottolino” Dario Scannapieco che, dopo la recente uscita del Dg del Tesoro Alessandro Rivera, si sente con l’acqua alla gola. Sembra ci sia un documento riservato della BCE che circola tra l’ufficio studi Bankitalia e la segreteria del simpatico sottosegretario “pistolero” Fazzolari, secondo cui il modello della Cdp italiana non sia più competitivo per il contesto attuale, ridimensionando così il ruolo della Banca di Via Goito a una mera fabbrica di aumenti di capitale. A cominciare dal prossimo di Open Fiber, ormai alla canna del gas.
Lo studio fa emergere l’enorme differenza, in termini di efficacia e di impatto sull’economia, della Cdp italiana rispetto alla Caisse des dépôts et consignations (Cdc) francese e alla Kfw tedesca. Il totale degli asset della Cdc francese è tre volte quello di Cdp, nonostante il valore del tessuto industriale italiano sia superiore a quello francese. Circa 800 miliardi di euro di differenza, più o meno quattro volte il Pnrr. Eppure, in Italia si parla solo di quest’ultimo, tralasciando quanto di più potrebbe fare Cassa Depositi e Prestiti se solo si raccordasse con il sistema bancario (a proposito, che fine ha fatto la task force interna creata con vis rivoluzionaria da uno Scannapieco appena arrivato per sfruttare appieno le opportunità concesse dal Pnrr?). Finora ha invece prevalso un’impostazione “burocratese” e da Risk Management, così come l’aver lasciato alla sola Invitalia l’attenzione al Sud rileva mancanza di “proattività responsabile”. Nella Cdc francese si trovano La Banque des Territoires e la BPI (Banque Publique d’Investissement), di cui non vi è traccia nella Cdp italiana, che nella sua compagine ha addirittura azionisti privati.
Nessuna attenzione, inoltre, al tema energetico e della transizione digitale per cui mancano all’appello 300-400 miliardi di business, di nuovi filoni industriali, con nuovi posti di lavoro. Anche l’ultimo documento prodotto da Cdp, “Strategic Plan 2022-2024”, purtroppo è solo uno scolastico power point che rivela la scarsa ambizione.Il vero gap rispetto alle omologhe straniere è questo: un modello di business antiquato e un management pur qualificato ma “unfit” per le competenze che ora servirebbero.
Un esempio tra tutti: nessuno ha mai detto a quanto ammontano le risorse finanziarie dedicate al “risparmio energetico” delle imprese, grandi e piccole, e delle famiglie. Importi risibili rispetto ai 50 miliardi annui di interventi per almeno tre anni di cui avrebbe bisogno il mercato, considerato che il risparmio energetico vale quanto l’approvvigionamento. Ma soprattutto risibili rispetto alla Kfw tedesca che, solo nel 2022, ha emesso 10 miliardi di green bond. Infine, sia Cdc che Kfw hanno costruito la loro dimensione strategica di asset dedicata alle economie dei loro Paesi senza attingere alla “mammella” del circuito postale.
Il presidente Meloni ha senz’altro a cuore il rilancio della leva “autoctona” di maggiore importanza per la crescita del Paese. E così anche il nuovo direttore generale del Tesoro Riccardo Barbieri che guarderà dentro Cdp una volta sistemata la Direzione Partecipazioni. Scannapieco, annusata l’aria, ora cerca di tornare in Bei. Con lui rientreranno in Lussemburgo manager chiave (tutti uomini, peraltro, con un’unica eccezione e con buona pace del gender gap) che, al tempo, furono distaccati dalla Banca europea per gli Investimenti: Francesco Pettenati e Micaela Celio (entrambi staff Ceo), Marco Santarelli (capo della Direzione Comunicazione, Relazioni Esterne e Sostenibilità), Massimo D’Eufemia (capo degli Affari europei, ma che a Bruxelles si vede poco) e Paolo Lombardo (capo della Direzione Cooperazione Internazionale e Finanza per lo Sviluppo, l’ultimo arrivato dei colleghi Bei).
Col senno di poi, la domanda sorge spontanea: visti i risultati ottenuti, c’era proprio bisogno di tutto questo esodo di massa dal Lussemburgo? Giorgia Meloni una risposta se l’è già data. Rivera docet.
Luigi Bisignani, Il Tempo 12 febbraio 2023