L’applauso, in presenza, è un segno del suddito, oltre che del fan. Il tributo all’artista – musicista, attore, sportivo, un po’ artista anche lui – è esagerato nei modi, è l’effetto di un moto dell’anima, di un transfert emotivo. La deferenza del sottoposto è esagerata solo nelle parole, ma non nei modi, nella quantità, non nella qualità. L’applauso ottunde le differenze. A Roma diremmo che si butta tutto in caciara. Ma i cittadini che saranno elettori, dovrebbero preservare la memoria e apprezzare le differenze. La stampa dovrebbe aiutare in questo, ma così non accade.
A dire il vero l’applauso, ottuso e succube, è un po’ un segno dei tempi, degli ultimi tempi nel nostro Paese sempre più liquido e confuso, nei ruoli oltre che negli obiettivi. È stato più che curioso vedere, alla conferenza stampa di fine anno, un Mario Draghi applaudito dai giornalisti che lo intervistavano. Sarebbe come se Giovanni Floris o Bruno Vespa, Corrado Formigli o Myrta Merlino si spellassero le mani dopo le risposte dei loro intervistati, specie se si tratta dei politici di turno. Non dico che sarebbe materia da deontologia professionale – preferisco la leggerezza costruttiva all’arcigna contestazione – ma una riflessione sul senso di questa deferenza sarebbe dovuta.
Qualcuno, pochi in verità, avevano segnalato questo stile coreano (del nord) che aveva trasformato i “cani da guardia” del potere (gli anglosassoni ci hanno fatto lezioni sulla stampa watchdog) in docili cutrettole. Apparire indipendenti, oltre che esserlo. Come il dovere della moglie di Cesare: non solo essere onesta, ma sembrare onesta.
Antonio Mastrapasqua, 4 marzo 2022