Chiara Ferragni, cupio dissolvi

Anche l’agenzia di comunicazione molla la “regina” di Instagram. Il tracollo di “Blond Salad” ha messo in crisi un sistema

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Ferragni

Il tracollo di Chiara Ferragni ha in sé qualcosa di tragico perché sconcertante come lo è di solito il cupio dissolvi. Gli sponsor si ritirano uno dopo l’altro, la tua faccia biscottata viene sostituita da altre facce, più vergini, più accattivanti? I cosiddetti follower, che suona meglio di seguaci per non dire coglioni, sbaraccano a ondate, a legioni? Tu devi fronteggiare continue accuse che si moltiplicano, che vanno dalla truffa aggravata alle pratiche commerciali scorrette, fino alla curiosità del fisco sugli assetti societari? Una persona normale resta in trincea a combattere o, se farabutti, sparisce, tenta di sparire.

Ferragni nulla di tutto questo: gira il mondo e si filma, per non sentirsi, tra feste e trattenimenti dove balla e salta. Poi si può dire che è comunicazione e che nel mondo stravolto di una ex regina influencer tutto è comunicazione, ma la faccenda conserva in realtà i tratti del cupio dissolvi, dell’autodistruzione alla “muoia Sansone”. Ossia la differenza, sostanziale, tragica, fra imprenditrice e prenditrice, per dire tra chi è abituato a battersi, per creare, per difendere, e chi si lascia andare in un modo stupido e autoreferenziale. Anche l’ultima promessa va, l’agenzia Community, che doveva servire a rilanciare l’immagine, quanto a dire salvare il salvabile, getta la spugna, a quanto si dice esasperata dalla presunzione irragionevole della regina caduta che si pretende ancora sovrana. Lei da Los Angeles si stava.

Come l’ex marito Fedez che risponde da qualche altra parte del mondo in una guerra di miraggi tra ragazzini viziati e troppo arricchiti. Dicevano tutti e due: i figli, per prima cosa vengono loro, vi pare che trascuriamo proprio loro in un momento simile. Ma è precisamente quanto stanno facendo e anche questo è notevole non per il nostro moralismo ma per quello del capitalismo che, storicamente vituperato perché frainteso, stravolto, conservava una carica formidabile di moralismo benefico. Vogliamo dire che non esisteva fino a tempi recenti capitalismo senza rispetto almeno di facciata di determinati valori: creare ricchezza, prendersi cura del contesto lavorativo, sentirsi in dovere di difendere e di fare crescere sempre quanto ottenuto. Come mi diceva quel padroncino veneto cui chiedevo perché diavolo vi ostinate ancora a complicarsi la vita, investire, rischiare visto che ce l’aveva fatta: “Parché g’avemo duecento famiglie”, e gli pareva l’unica risposta possibile e, messa così, pareva anche a me.

Ma la prenditrice digitale Ferragni, detta “insalata bionda”, è una trentenne del qui e ora, la sua filosofia è battere il ferro fin che caldo. Poi il cupo dissolvi. “Eh, ma tanto lei di soldi ne ha per dieci vite”: anche la filosofia di chi la segue non pare un granché. Naturalmente un gioco tanto ambiguo quanto sofisticato di manipolazione delle coscienze non è pensabile senza il decisivo apporto della comunicazione. Difatti come motiva la ex divinità Chiara il suo fallimento annunciato? “Piccoli errori di comunicazione”. Cioè la colpa è degli schiavi, io non ho responsabilità, non sbaglio, non devo scomodarmi a capire. Lei non “g’ha” duecento famiglie ma duecento marchi, che però non la sopportano più, la tengono in fama di radioattiva, di famigerata. Come per un capolinea di questa mutazione perversa degli influencer. Sappiamo che questa comunicazione storicamente si è imbastardita con l’informazione, si cela dietro la finta notizia, non da oggi.

Il punto di svolta si ha negli anni Ottanta, con la fine del decennio collettivo, delle calde passioni ideologiche, dell’overdose dei significati politici – una fase, in realtà, largamente preparata almeno dalla seconda parte della decade precedente. Negli ’80 la pubblicità, spinta dall’introduzione della tivù commerciale, comincia a evolvere, a diversificarsi e ad assumere un peso sempre più preponderante. Se fino ad allora si trattava di puntellare un mercato di lettori che funzionava da solo, con l’acquisto in edicola, col canone Rai senza competitori privati, a questo punto scattano dinamiche concorrenziali del tutto nuove; la pubblicità si allarga, acquista sempre più spazi, detta di conseguenza le sue regole; alla fine del decennio, il più ascoltato in redazione non è il direttore del giornale ma quello della raccolta pubblicitaria. È lei che regge o condanna una testata, ed è lei che a questo punto orienta, plasma anche i contenuti. Certe inchieste non si debbono più fare, gli sponsor di peso vanno esaltati – dietro la foglia di fico degli articoli e delle interviste “serie” -, gli inserti che accompagnano i quotidiani si gonfiano e per l’80% sono fatti di pubblicità, sono vetrine su carta stampata: è proprio da qui che le influencer più attente, o meglio guidate, attingono per mettere a punto la loro strategia.

Nei Novanta questa dinamica cresce ancora, con i network televisivi che drenano risorse pubblicitarie a scapito della carta stampata. Poi, negli anni Zero del Duemila, l’entrata di internet per le masse cambia ancora tutto. Si assiste dapprima a una gran confusione, si pensa che il grosso della raccolta finirà in rete, invece è la televisione a tenere, mentre il mondo dei giornali perde ancora. Dopo gli anni Dieci, la comunicazione pubblicitaria si rende conto che il mercato dei contenuti, per quanto rinnovato dalla inesausta creazione di nuovi miti, nuovi desideri e nuovi prodotti, si avvicina alla saturazione; a quel punto la pubblicità deve tenere conto dei nuovi modelli, si personalizza, punta sui personaggi riconoscibili, capisce che per sopravvivere ha bisogno di soggetti capaci di influenzare almeno quanto questi ultimi hanno bisogno di lei. La fase ulteriore, e si direbbe definitiva, sta nella mutazione genetica, nel cambio di pelle: la pubblicità non si limita più a proporre consumi, a indurre ambizioni più o meno raggiungibili; non le basta, forse neppure più le preme creare mercati saturi, che risentono di logiche superate; deve diventare etica, deve imporre valori obbligatori, incarnati in figure di riferimento. Se non “consumi” Greta, sei contro il pianeta. Se non apprezzi Carola, sei razzista e crudele. Se non ti fidi di Chiara, sei semplicemente uno che non ha capito, un perdente, un meschino che, invece di provare ad essere loro, si confina nel risentimento e nella rinuncia.

È un approccio molto più aggressivo, molto più immanente (oltre che ipocrita, falso al sommo grado come proprio i pandoridi Ferragni dimostrano). Perché non suscettibile di obiezioni, di discussioni. Fondato su un ricatto morale che ha dietro la forza dell’etica e quella del numero: se attacchi da solo una che ha venti milioni di seguaci, come fai a poter pensare che sono quei venti milioni dalla parte del torto? Queste presenze volatili ma incombenti non hanno minor peso di una testata con la sua storia, il suo pubblico consolidato, la sua affidabilità. Influencer come informazione, con tanto di patente di credibilità attribuita da decisori e agenzie improbabili. Fin che dura.

Il tracollo di Ferragni sembra aver messo in crisi questo sistema, sembra chiedere l’ennesima ridefinizione figlia della palingenesi, ma un capitalismo senza più ombra di cultura, valori, prospettive, e, tutto sommato, intelligenza, un neocapitalismo affidato a spacciatori di sé stessi, delle proprie chiappe e miserie, è un capitalismo al contrario, un capitalismo di rapina che non sembra avere un grande futuro, che rischia di franare su se stesso secondo utopia marxista.

Max Del Papa, 6 maggio 2024

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