Chiudete le librerie: Ilaria Salis scrive un libro

Dopo Soumahoro e Gino Cecchettin, ecco i quaderni dal carcere ungherese. L’attivista vuole insegnarci “la sua visione del mondo”

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L’editoria italiana è diventata un refugium peccatorum. Se uno non ha niente da dire o, peggio mi sento, ha cose che dovrebbe far dimenticare, viceversa ci fa un libro e glielo pubblicano. Adesso, immancabile, inesorabile, tocca alla compagna Ilaria Salis detenuta in Ungheria forse perché credeva di essere in Italia, dove se prendi a legnate per strada uno che non ti piace ti invitano in tutte le televisioni.

Che ha da dire questa maestra col suo “antifascismo naturale”? Ma il libro è pronto, in concomitanza con l’avventura elettorale a cura del duo di impresari Bonelli&Fratoianni. Gli stessi del compagno stivali, Soumahoro, anche lui col suo librettino che vendette qualche decina risicata di copie ma dal quale pretendeva aver cavato abbastanza soldi per comprarsi un villino. Una editoria assurda, palesemente servitora di altri poteri, gli scaffali delle librerie invasi dai narcisi tattici, gli egocentrici in carriera, i Saviani, gli Scurati, le Murgia destinate a pubblicazioni postume da far impallidire Frank Zappa, i maranza balordi, i politici allusivi, le epifanie dello spettacolo e dello sport, il Cecchettin Gino che ha scoperto tardi le delizie del femminismo antifascista.

Io mi sono provato a scorrerlo, il suo libretto mentre aspettavo un treno in Centrale a Milano: alla terza banalità da cioccolatini contro il patriarcato mi sono chiesto come fa una presa in giro del genere a vendere. Scritta in poche settimane dopo la morte cruenta di una figlia. Ma vendono, vendicchiano. Tutta roba senza fondamento, affidata a giornalisti amici, ai “negri” e “biondini” delle agenzie di comunicazione, da cui lo stile ingessato, da annuncio telefonico, quel frasario improbabile, quel pidgin english o italian, “pienamente operativo”, “acca ventiquattro”, libri afasici scritti da gente che non sa scrivere per gente che non sa leggere, col pretesto dei sentimenti facili. Il libro di Cecchettin Gino, in attesa di quello dell’altra figlia Elena, è un volumetto esiguo, scritto in caratteri dilatati da orbi, con infinite spaziature, con troppe pagine bianche, così da arrivare a una foliazione decente. Ma indecente come operazione, come consistenza. Il libro, un tempo sfida intellettuale, oggetto di valore quasi sacrale, ridotto a biglietto da visita, a expertise.

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Anche un trampolino per tutt’altri lidi, per orizzonti di gloria partitica. Ma la democrazia puttana prevede l’utilizzo strumentale dell’editoria ancillare e lo spaccia per pluralismo, per ecumenismo culturale. Il manoscritto del general grafomane, Vannacci, scritto in modo strampalato per stile e contenuti, ha convinto due o trecentomila senza il coraggio delle proprie idee, “il generale parla anche per me”, “il generale gliela canta chiara ai potenti”, e intanto il generale è in lista per far parte del potere europeo, il più criminosamente deleterio per l’Italia. Trecentomila che non sapevano, forse sospettavano, di avallare una operazione politica sofisticata, con la stampa di destra che all’unisono prendeva ad occuparsi di un diario autoprodotto prima ancora che se ne conoscesse l’esistenza.

Adesso già si parla del libro del Chico Forti appena riscattato dagli Stati Uniti. Quanto a dire che il circo ideologico-pubblicitario di destra sta imparando da quello di sinistra che comunque resta egemone. Lo schema è preciso: vicenda personale o familiare, libro, candidatura. Con tutta l’esposizione del caso, con i compromessi e le vanità della situazione: chi scrive non è più un intellettuale e neanche un giornalista, è un ibrido: scrittore-giornalista-politico o aspirante tale-influencer. Con l’ultima dimensione che ingloba, che riassume le altre. Da cui il successo apparentemente inspiegabile, in realtà del tutto logico, di Chiara Ferragni, una incapace perfino di leggere una patetica lettera a se stessa, che le avevano scritto in 14 mani. Ma adesso che ha da cantare la sua ascesa e caduta, ci si impegneranno di più, i mezzi non mancano, le agenzie turistico-letterarie sanno cosa fare.

Anche il Cecchettin Gino ha liberato il suo estro letterario previo affidamento ad importante agenzia londinese, una agenzia per vip. Ma che? Vogliamo negare una verità anche a mamma Giogiò, quella dello sfortunato giovane musicista napoletano ammazzato in un agguato, una che si sbraccia perché, e non ne fa mistero, pretende di candidarsi? O al club Soumahoro, la moglie lady Gucci, la suocera Mama Africa? Specialmente adesso che, come la compagna Salis, stanno ai domiciliari con addosso un processo per truffe e malversazioni?

Salis da parte sua con i quaderni dal carcere ungherese “vuole insegnarci quale sia la sua visione del mondo”, che poi è l’unica giusta per autodefinizione: ma quale vuoi che sia? Quella Askatasuna, quella infantile neosovversiva di una che a 40 anni pretende di girare a caccia di nazisti come in un film di fumetti. Tutta roba di cui non si sente alcun bisogno, ma va così, la commistione editoria gossip politica è irreversibile e i più voraci sono quelli che ostentano fastidio e disprezzo per le logiche neoliberiste, neocapitaliste. Il libro da parete per far cassa in attesa di qualcosa di meglio. E dietro non sai mai di chi sono le mani, il calamo. Anche ai tempi della meteorina Melissa P., fatta passare chissà perché in aura di rivoluzionaria comunista, si diceva, si insinuava che dietro il suo pornazzo adolescenziale “100 colpi di spazzola” stesse il giro Wu Ming-Giuseppe Genna, gli sponsor di Cesare Battisti, terrorista-scrittore: chissà, magari solo pettegolezzi da pianerottolo editoriale, certo però che quel libercolo pareva un ricalco di un altro tascabile erotico-pornografico da bancarella, “Eros esiste io l’ho incontrato”, 1971, del sedicente Philippe De Jonas, Dellavalle editore, oggi provvidenzialmente introvabile.

Max Del Papa, 24 maggio 2024

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