Il reddito di cittadinanza per parecchi italiani è una cosa buona e giusta. E chi lo critica, come il sottoscritto, viene considerato un poco di buono. Chi può essere a favore della povertà? O meglio che le persone in povertà restino in tale miserevole condizione? Un perfido egoista.
La situazione è più complicata. La differenza tra un liberale e un socialista, su certi temi pratici, non sta tanto nel fine che si intende raggiungere, ma sul modo per ottenerlo. Un liberale come Milton Friedman, proveniente tra l’altro da una famiglia di immigrati poverissimi, non si è mai sognato di ritenere la battaglia alla povertà una battaglia sconsiderata. Anzi. Il punto è come combatterla.
Questo governo ha stanziato almeno dieci miliardi per reddito e pensione di cittadinanza. Con questa strada spera di sconfiggere la povertà. Ovviamente il risultato non sarà questo. Ci sarà un’integrazione al reddito di coloro che non ce la fanno. Ci sarà un incentivo al lavoro sommerso per chi vuole continuare a vivere bene. E lo farà più comodamente. Da domani in poi sia il lavoratore sia il datore di lavoro in nero avranno l’interesse a non denunciarsi. Il lavoratore non scoprirà il suo datore perché perderebbe il beneficio monetario e il datore, domani come oggi, non ha alcun interesse a rendere pubblica una condizione di relativo favore di cui gode. Insomma l’interesse reciproco sarà quello di prendere il bonus e scappare. Voi direte che questo avviene con qualsiasi sussidio: è verissimo. Ma più è alto e maggiore è l’incentivo. Oggi un magazziniere che dovesse lavorare per una multinazionale con un contratto part time di sei ore al giorno ha uno stipendio mensile intorno ai 950 euro (calcolando il rateo della tredicesima e quattordicesima). Il reddito di cittadinanza per sé e sua madre, o padre, disoccupato e convivente sarebbe pari a 1.500 euro.
L’economia si regge sugli incentivi. Ebbene è difficile pensare ad un minore incentivo al lavoro di un sussidio siffatto. Poco conta la tripla offerta di lavoro che non si può rifiutare e la disponibilità a fare lavori socialmente utili. Vediamo perché. Il presupposto di perdere il sussidio se dovessero giungere offerte di lavoro, si può reggere o in un paese di piena occupazione, o in paese il cui il sussidio è molto inferiore al lavoro che si offre. Mi spiego meglio: ci sarà, posto che poi il mercato lo consenta, sempre un’offerta a tempo, o part time, o indeterminata ai minimi, o disagiata in «bacheca», ma saranno tutte molto poco competitive rispetto al sussidio. E drammaticamente questo disincentivo vale più si è giovani e più si deve entrare nel mercato del lavoro a basso salario. Insomma è un virus culturale mostruoso, in un paese in cui si ha il più alto tasso di giovani che non lavorano, ma che al tempo stesso non lo cercano. A tutti costoro una «mancetta» potrebbe fare comodo. Questo ragionamento perde poi completamente ogni senso in quelle aree del paese in cui verranno distribuiti maggiormente questi assegni: e cioè quelle più povere e quelle dunque dove il controllo sul rispetto delle condizioni di accessibilità al sussidio dovrebbe essere maggiore.
Insomma liberali e socialisti vogliono entrambi combattere la povertà. I secondi, come chi ci governa oggi, ritengono che per farlo sia sufficiente togliere sempre più quattrini a chi lavora o a chi deve ancora nascere, per darli a chi non lo fa. I liberali pensano invece che la strada sia più difficile. Occorre mettere nelle condizioni le imprese di assumere: liberandole dal fisco oneroso, dai controlli senza senso, costruendo per loro una scuola e delle strade all’altezza. Tutte attività che si fanno negli anni. Mentre per i dieci miliardi del reddito ci vuole solo un tratto di penna e molti litigi con l’Europa. Un gigantesco e inutile trasferimento di risorse per un buon fine, ma anche l’inferno, si dice, è lastricato di buone intenzioni.
Nicola Porro; Il Giornale 6 ottobre 2018