“Neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”, scriveva negli anni Trenta del secolo scorso il filosofo tedesco Walter Benjamin. Voleva dire che il nazismo, da cui era fuggito, avrebbe rimodellato e ricostruito ex novo anche il passato, per dimostrare l’eterno presente del totalitarismo. Lo stesso si poteva naturalmente dire del regime comunista: che esattamente come il nazismo ha per decenni manipolato la storia e i morti, e continua a farlo, in Cina, in Corea del Nord e altrove. Ma si parva licet la citazione di Benjamin si attaglia appieno pure al nuovo totalitarismo soft oggi prevalente in occidente, variamente chiamato politicamente corretto che, sulla scorta del saggista canadese Mathieu Bock-Coté preferisco chiamare “paradigma diversitario”.
Questo nuovo totalitarismo “liberale” costituisce un’ideologica granitica e intollerante, quindi violenta, che persegue i propri scopi attraverso i soliti strumenti delle ideologie violente: censura da un lato, propaganda e manipolazione dall’altro. A questo doppio trattamento non sfugge alcun ambito della vita culturale, da quella dei grandi blockbuster di massa e di consumo, alle culture pop, fino alle avanguardie e alle forme di fruizione artistica cosiddette “alte”.
Tutta la cultura diventa un canale in cui le acque della ideologia diversitaria tracimano, con le loro incrollabili convinzioni. Una di quelle, una sorta di sotto ideologia portante l’ideologia madre, è il cosiddetto immigrazionismo: l’esaltazione non solo della necessità ma anche della bellezza dell’immigrazione senza controllo e delle frontiere aperte. Per la sotto ideologia immigrazionista tutta la storia è storia di “migrazioni”, ogni popolo è sempre stato “meticcio”, le identità nazionali sono solo finzioni, costruzioni artificiali che hanno per secoli illuso i popoli europei. Ma finalmente oggi ci avviciniamo all’età della luce: quello in cui la cultura occidentale sarà finalmente “meticciata” dagli arrivi di centinaia di migliaia di immigrati dall’Africa.
Il compito dell’artista, nella visione immigrazionista, sarà quello di esaltare quest’idea, in qualsiasi ambito egli operi. E a proposito di opera, proprio la veneranda tradizione lirica è ormai da tempo vittima della ricostruzione manipolatoria degli ideologi dell’immigrazione e più in generale del paradigma diversitario. Fece scalpore (e fece ridere mezzo mondo) qualche mese fa il caso della Carmen di Bizet, a cui il regista cambiò addirittura il finale per non fare chiudere l’opera con un “femminicidio”. Oggi ne fa le spese Verdi con il Nabucco anti-sovranista del Teatro Regio di Parma.
Non credo esista nella produzione culturale mondiale un’aria che renda meglio lo spirito di appartenenza nazionale come il cosiddetto Va pensiero del Nabucco. E del resto, Verdi era un patriota, un nazionalista liberale e di questi sentimenti sono intrisi tutte le sue opere, anche quelle successive all’unità d’Italia. Ma ora arriva Anna Maria Meo, direttore generale del teatro Regio di Parma, quindi nel cuore del verdismo, entusiasta per la nuova regia del Nabucco di Stefano Ricci e Gianni Forte. Che, come spiega La Verità del 25 settembre, sarà “filo immigrazionista” e “anti sovranista”.
I due registi, “per contrastare il nocivo sentiero sovranista” riempiranno la scena di barche di migranti e laddove Verdi intendeva trasfondere nel Nabucco la volontà di riscatto della nazione italiana, oggi il Teatro regio di Parma trasformerà l’opera in un manifesto della distruzione dell’Italia attraverso l’esaltazione della cultura meticcia.
E così, come aveva intuito Benjamin, anche il povero Verdi, le cui spoglie risposano a Milano, verrà riesumato e pesantemente tradito, volgarmente strumentalizzato per un messaggio che non è neppure di rottura ma banalmente conformistico: l’immigrazionismo infatti è una delle vere ideologie delle establishment e del regime del nostro tempo. E a questo regime ci si oppone in vari modi: boicottando ad esempio le “opere” manipolatorie, a cominciare dal Nabucco anti sovranista del povero ignaro Verdi.
Marco Gervasoni, 26 settembre 2019