Il Secolo XIX, 31 agosto 2008: “Nove orsi bianchi sono da giorni in balìa delle onde nel mare di Chukchi in Alaska, a quasi cento chilometri dalle coste, dopo che i ghiacci si sono letteralmente sciolti sotto di loro. Sembra che alcuni non ce l’abbiano fatta. E ora è corsa contro il tempo per tentare di salvare quelli che ancora hanno la forza di nuotare. L’allarme era stato lanciato intorno al 20 agosto dal WWF che sta seguendo la situazione e oggi la storia è apparsa anche sul quotidiano britannico Daily Mail dove campeggia una eloquente fotografia, scattata da un elicottero in ricognizione, di un orso bianco che nuota in solitudine in mezzo al mare”.
“Alcuni di questi nove esemplari non si vedono più – ha detto Massimiliano Rocco, responsabile del Programma Traffic/Specie del WWF Italia –, probabilmente non ce l’hanno fatta. Gli altri sono allo stremo e al limite della sopravvivenza. Non possono tornare indietro e riconquistare naturalmente il pack, è impossibile. Bisogna intervenire”. “Perciò – ha riferito Rocco – abbiamo chiesto alle autorità canadesi e statunitensi di intervenire con i loro mezzi per poter anestetizzare gli animali e portarli in salvo”.
“Trovare così tanti orsi polari al largo è il chiaro segno che il ghiaccio su cui vivono e cacciano continua a sciogliersi. Altri orsi potrebbero trovarsi nelle medesime condizioni – aveva detto nei giorni scorsi Geoff York, un biologo del WWF esperto di orsi bianchi –. Se i cambiamenti climatici continueranno a colpire l’Artico, gli orsi polari e i loro cuccioli saranno costretti a nuotare per lunghe distanze per cercare cibo e riparo”.
Immagine straziante
Immagine straziante, quella degli orsi polari e dei loro cuccioli in balia dell’oceano, diffusa dal WWF il 20 agosto 2008, quando l’emisfero nord del pianeta era alle prese con un’estate caldissima e non si faceva fatica a credere che, a causa del caldo, stesse accadendo qualcosa di drammatico. Un’immagine che viene subito ripresa e rilanciata con dovizia di particolari da tutti i mezzi d’informazione, con l’effetto, consapevole o no, di scavare profondamente nella coscienza collettiva e di sensibilizzare i governanti sulla necessità di intervenire immediatamente sui cambiamenti climatici.
Peccato che la notizia sia totalmente inventata.
Le prime denunce in tal senso appaiono sui mezzi d’informazione una settimana dopo il primo annuncio. Ad insospettire i professionisti dell’informazione è il fatto che, dopo il primo drammatico annuncio, non facciano seguito altre puntate (attesissime) della saga degli orsi polari. Perché il WWF ha rinunciato a battere il ferro finché era caldo? Allora il WWF corre ai ripari e promette aggiornamenti “appena possibile”. A stretto giro il professor Richard Steiner, membro del programma di consulenza marina (?) dell’Università dell’Alaska, afferma che gli orsi sono “in serio pericolo perché hanno bisogno di ghiaccio marino, che sta diminuendo”. Secondo Steiner, quanto sta accadendo dovrebbe “convincere chi ancora non crede al riscaldamento globale e all’impatto che sta avendo nell’Artico”.
Ma gli orsi polari, anziché morire affogati, hanno continuato a nuotare, come hanno sempre fatto, fino a tornare sulla terraferma. Nelle zone abitate dagli orsi polari il ghiaccio si scioglie ad ogni stagione estiva, quando per tutti gli animali artici inizia la stagione della riproduzione. E gli orsi, come sempre, trovano conveniente avventurarsi alla ricerca di nuovi territori di caccia, raggiungendo le numerose isole e aree costiere che d’estate sono (ahimè) sgombre dai ghiacci ma in compenso sono sovrappopolate di foche e di cuccioli di foca: è quello il vero obiettivo degli orsi; altro che il ghiaccio polare che si scioglie sotto le loro zampe.
Dopo le prime smentite, la saga degli orsi polari alla deriva si esaurisce in pochi giorni, rimpiazzata dalla catastrofe bancaria (quella sì vera) della Lehman Brothers e dei mutui subprime. Ma non c’è da dubitare che, dal momento dell’annuncio a quello dell’ingloriosa rivelazione della bufala, nelle casse del WWF siano affluiti milioni di dollari sotto forma di versamenti volontari di chi nel frattempo, in tutto il mondo, decideva di devolvere il proprio contributo, doveroso e disinteressato, alla causa della salvezza dei poveri orsi.
Bufale ricorrenti
Anche se sono regolarmente smascherate, le campagne di sensibilizzazione sulla sorte dei poveri orsi polari alla deriva per lo scioglimento dei ghiacci si ripresentano ricorsivamente. Ed è così che, dopo l’avventura natatoria dei nove orsi naufraghi, il problema si è riproposto in termini ancora più drammatici negli anni successivi.
Il 4 marzo 2010 giornali, riviste e blog pubblicano le foto di un piccolo frammento di iceberg avvistato – si dice – a 12 miglia dalle coste della Norvegia sul quale sono appollaiati mamma orsa e il suo cucciolo. Lo scioglimento lento e inesorabile della banchisa polare ha causato il distacco del pezzo di ghiaccio sul quale sono intrappolati i due orsi (ma perché “intrappolati”, se entrambi sanno nuotare perfettamente?). Si tenta perfino di accreditare l’ipotesi che mamma orsa stia facendo da skipper, cercando in tutti i modi di mantenere stabile il piccolo iceberg per proteggere il suo cucciolo, quasi il cucciolo stesso fosse solubile in acqua. Sul blog i commenti si succedono frenetici e accorati, dando alla vicenda un’aura da telenovela sudamericana: “Possibile che nessuno degli animalisti non abbia almeno cercato di aiutarli? Negli occhi di mamma orsa c’è solo richiesta di aiuto… e tanta paura per il piccolo… che evidentemente non ce la può fare a nuoto e la mamma non lo vuole lasciare…”; “Sono trascorse ore e forse giorni. Mi auguro che li abbiano già salvati. Lascio la mia e-mail per avere la risposta…”. Poi tutto finisce in una bolla di sapone: si tratta dell’ennesima bufala orchestrata dai soliti ambientalisti e animalisti in cerca di fondi.
L’8 ottobre 2016 Lifegate ci informa che i rarissimi orsi polari che giungono sulle coste dell’Islanda, anziché essere abbattuti (!) come si fa di solito, saranno salvati dai droni. In che modo non si riesce a capirlo, visto che i droni possono sollevare al massimo una ventina di chili e un orso pesa alcune tonnellate. C’è inoltre da considerare che il fenomeno non è così diffuso da meritare particolare attenzione: secondo uno studio condotto dall’Istituto islandese di storia naturale, durante tutta l’epoca storica (per capirci, da Erik il Rosso ad oggi) gli orsi approdati in Islanda non sono più di qualche centinaio. L’ultimo sbarco di un orso polare (regolarmente abbattuto, in quanto considerato pericoloso per gli umani) è avvenuto nel luglio 2016 a Hvalsnes.
Ma in tutta l’area artica gli avvistamenti di orsi naufraghi alla deriva continuano a succedersi con regolarità. Il 29 aprile 2019 l’agenzia russa Ria Novosti dirama una notizia, certamente degna di fede, secondo la quale un orso polare alla deriva su un iceberg al largo della penisola russa della Chukotka è stato riportato a casa nel Mare di Bering con un elicottero MI-8.
Baricco unplugged
Nell’ottobre del 2019 Alessandro Baricco pubblica il libro “The Game”, nel quale analizza la rivoluzione digitale alla luce della sua opera precedente, “I Barbari”, nella quale ha regalato all’umanità perle di saggezza secondo le quali i no-global sarebbero la nostra assicurazione contro il fascismo e il videogame Space Invaders sarebbe uno dei miti fondativi di quella che lui chiama “insurrezione digitale” e che fa ascendere nientemeno che all’opera di Alan Turing, dimostrando così di conoscere quest’ultima solo attraverso Wikipedia. Ma nel 2019 citare Alan Turing “fa fino”, anche quando si confonde la “macchina di Turing” (astratta) con uno smartphone. Paradigma dell’“insurrezione digitale”, secondo Baricco, è proprio l’i-Phone. Non si tratta affatto, come pensano in molti, di uno dei più classici strumenti di conformismo e omologazione. Secondo Baricco, “in quel tool uscivano allo scoperto e trovavano forma i tratti genetici che l’insurrezione digitale aveva sempre avuto […]. In quel telefono […] moriva il concetto novecentesco di profondità, veniva sancita la superficialità come casa dell’essere, e si intuiva l’avvento della post-esperienza. Quando Steve Jobs scese dal palco, qualcosa era arrivato a compimento”. Bella immagine: ricorda un po’ le seghe mentali di Bonito Oliva sulla trans-avanguardia.
Nello stesso anno 2019 l’editore di Baricco trova conveniente stimolare uno spin-off di tanta profondità di pensiero con la pubblicazione del volume “The Game Unplugged”, realizzato commissionando testi eterogenei sulle tematiche del web ad un parterre autorale giovane quanto variegato. Uno di questi contributi è una riflessione a voce alta sulle difficoltà di coinvolgere il pubblico sui temi del riscaldamento globale, difficoltà che, a quanto pare, finisce col giustificare alcuni giochetti disinvolti. Ma solo per il bene dell’umanità. Nel testo si fa riferimento esplicito ad un video pubblicato su Instagram il 5 dicembre 2017 dal fotografo naturalista Paul Nicklen nel quale si vede un orso bianco che si trascina, magro ed emaciato, sull’isola di Baffin, nell’Artico canadese, in un paesaggio desolato privo di neve e ghiaccio. È solo un vecchio orso giunto alla fine della sua esistenza per cause naturali (anche gli orsi polari muoiono…). Ma Nicklen preferisce scrivere che “la popolazione dei 25 mila orsi polari rischia l’estinzione entro la fine del secolo” a causa della riduzione dei ghiacci artici. Si tratta della campagna di lancio del progetto Tide dell’organizzazione ambientalista sì-profit Sea Legacy.
Due giorni dopo, il filmato di Nickelen è ripreso integralmente da National Geographic che lo correda di un tappeto musicale di impronta decisamente noir e di una didascalia rivelatrice: “Ecco che aspetto ha il cambiamento climatico”. Le parole “cambiamento climatico” sono evidenziate in giallo e diventano così il cuore di una notizia (fasulla) che attribuisce l’agonia del vecchio orso ai cambiamenti climatici. In breve tempo il video diventa il contenuto più condiviso di sempre su National Geographic con 2,5 miliardi di visualizzazioni.
Danni permanenti
Finalmente, il 12 dicembre un servizio diramato dalla BBC, realizzato con il supporto di alcuni studiosi, chiarisce come stanno effettivamente le cose: l’orso ripreso nel filmato è evidentemente affetto da malanni che con i cambiamenti climatici non c’entrano niente e si muove in un territorio nel quale i ghiacci perenni non ci sono mai stati.
Qualche giorno dopo, recependo anche le inattese rimostranze di Nicklen e di Sea Legacy, la redazione di National Geographic è costretta ad ammettere di avere forzato il significato del filmato. Ma il succo delle prolisse giustificazioni è che la colpa dell’accaduto (manco a dirlo) è dei “negazionisti”, che “costringono” chi ha veramente a cuore le sorti del pianeta ad operazioni disinvolte di questo genere per sensibilizzare gli animi!
I danni causati da mistificazioni come queste si creano in un attimo e, purtroppo, sono permanenti. I tempi di reazione ai messaggi terroristici sul clima e sulle sorti del Pianeta veicolati attraverso Instagram, Facebook, Twitter e Youtube polarizzano l’attenzione per pochi secondi ma lasciano convinzioni (errate) che durano per sempre.
Lo smontaggio di una fake news, che si tratti di orsi o di altro, richiede preparazione, ricerca e riflessione, ma non ha mai lo stesso appeal emotivo di una fake news che si gioca interamente sull’impatto emotivo. La verità è dunque destinata a soccombere nel breve termine e a non essere più recuperabile neppure nel medio e lungo termine.
Un esempio eclatante è dato dal ricordato contributo a “The Game Unplugged” che, anziché evidenziare i guasti causati da certa ideologia pseudo-ambientalista, si conclude con una elaborata apologia sul perché i catastrofisti del clima siano costretti, per il bene dell’umanità, a ricorrere a mezzucci come le falsificazioni per affermare la “verità vera”, senza alcun riguardo per la verità scientifica.
L’autore del contributo citato conclude così le sue brillanti riflessioni: “Viviamo nell’inerzia di una società costruita attorno ai combustibili fossili, e gli istinti e le abitudini che in questo sistema ci sono serviti per prosperare ci stanno portando alla distruzione […] Davanti ai dati non ci dovrebbe essere spazio per le interpretazioni […] Non eravamo destinati all’apocalisse, e se siamo finiti in piena crisi climatica ci sono delle responsabilità precise, politiche ed economiche”.
Si giunge così a rovesciare completamente ogni logica, a dimostrazione del fatto che contro il fanatismo e il ciarpame ideologico non ci sono ragioni scientifiche che tengano. Del resto – come continuano a spiegarci coloro che hanno capito tutto – tutto è relativo, anche la verità.
Se oggi si effettua una ricerca in Internet, le notizie relative ai nove orsi naufraghi e al loro confratello emaciato dell’isola di Baffin si ritrovano ancora lì tali e quali, senza essere corredate di alcun riferimento stabile alle smentite che nel frattempo le hanno ridicolizzate.
Un mare di cazzate
Il mare delle cazzate che circolano in rete sugli orsi polari non sembra avere limiti. Ecco di seguito alcune perle veicolate da LifeGate, public company di consulenza sul modello “People-Planet-Profit” creata nel 2000 dalla famiglia Roveda, dopo avere accumulato una fortuna vendendo prodotti biologici:
– “Dobbiamo dire addio all’orso polare? Simbolo dello scioglimento dei ghiacci, oggi il loro numero è drasticamente in diminuzione a causa delle temperature bollenti che si registrano nell’Artico” (19 marzo 2014).
– “Gli orsi polari hanno iniziato a cacciare i delfini per colpa dell’uomo. Il riscaldamento globale sta portando alcuni orsi polari a cibarsi di delfini. Il fenomeno inedito è stato osservato da alcuni ricercatori norvegesi” (12 giugno 2015).
– “L’agonia degli orsi polari racchiusa in una foto. Una fotografia scattata alle Svalbard mostra con cruda chiarezza il fenomeno dello scioglimento dei ghiacci artici che sta minacciando la sopravvivenza degli orsi (e di tutti noi)” (11 settembre 2015).
– “La purezza genetica dell’orso polare e del grizzly è minacciata dal riscaldamento globale che ne sta sovrapponendo gli areali favorendone l’ibridazione” (26 maggio 2016).
– “Un nuovo pericolo per gli orsi polari, i cuccioli sono minacciati da agenti inquinanti. Secondo uno studio italiano i contaminanti organici persistenti alterano il latte delle femmine avvelenando i piccoli orsi polari” (7 gennaio 2017).
Apprendiamo così che – si badi bene, per colpa dell’uomo – gli orsi polari sono in via di estinzione (non è vero), mangiano i delfini (mangiano qualunque animale capiti loro a tiro) e scopano con i grizzly (un solo esemplare ibrido è stato finora documentato in natura nel 2006).
Quindi sono solo cazzate: ma chi si incarica di farlo notare al numerosissimo popolo che continua a frequentare acriticamente il web e a nutrire le proprie convinzioni preconcette con queste “verità” rivelate?
L’allarme sull’estinzione degli orsi polari fu lanciato dai proto-ambientalisti negli anni Sessanta. Sotto accusa erano allora le colonie umane dell’Artico che cacciavano gli orsi per cibarsi della loro carne. Poi si scoprì che la popolazione degli orsi polari era in netta crescita. Ma oggi possiamo dirlo solo sottovoce, altrimenti rischiamo di offendere ambientalisti e animalisti e di essere classificati tra i “negazionisti” del cambiamento climatico. E così, nel sito del WWF l’orso polare è tuttora classificato come “specie in via di estinzione”: erroneamente, dato che, secondo i dati scientifici, la popolazione degli orsi polari è triplicata nel mezzo secolo che separa il 1960 dal 2010, che la specie non ha predatori (ormai neppure l’uomo) e che può contare su riserve di cibo vivo costituito da specie tutt’altro che in via di estinzione.
Ma incurante della verità scientifica, il WWF ha meritoriamente deciso di offrire a tutti la possibilità di adottare un orso polare. Lo si può fare pagando una somma compresa tra i 30 e i 125 euro all’anno: meno di quanto costi adottare a distanza un cucciolo di uomo del Terzo Mondo.
La pelle dell’orso
L’ennesimo allarme sulla sorte degli orsi polari fu lanciato nel 2015 in seguito alla comparsa di una campagna pubblicitaria della Arsu Systems Corporate, azienda che attraverso il proprio sito web, promuoveva l’uso della pelle di orso polare come coibente naturale per isolare dal freddo le abitazioni. Hans Jansson, sedicente amministratore delegato dell’azienda, dichiarava nel sito (tuttora accessibile online) che la sfida per un futuro sostenibile passava per una nuova idea di architettura, e in quell’ambito l’uso delle pelli degli orsi polari – naturali e biodegradabili al 100% – apriva possibilità notevoli, sulla scia di quanto da sempre avevano scoperto e praticato le popolazioni Inuit. Il sito offriva quindi la possibilità di chiedere un preventivo gratuito per isolare termicamente la propria abitazione con pelli di orso polare ricorrendo a tre diverse linee di prodotto: il Furpro30, pellicce di cuccioli di orso di età inferiore a tre anni, adatte per l’isolamento delle intercapedini interne e dei controsoffitti; il B-tech28, pellicce di orsi di età compresa fra i tre e i dieci anni, idonee per l’isolamento di intercapedini e soffitti non praticabili; il Bearrier22, pellicce di orsi di età maggiore di dieci anni, ideali per facciate ventilate, cappotti termici e coperture.
Immediatamente si scatenò sul web la campagna #weareall bears (siamotuttiorsi) che chiedeva a gran voce l’oscuramento immediato del sito della Arsu Systems. Salvo poi accorgersi che si trattava di una campagna di comunicazione provocatoria lanciata dalla multinazionale dell’isolamento termico per l’edilizia Ursa (dal cui anagramma la denominazione Arsu dell’azienda incriminata) in collaborazione con Italian Climate Network e Tribe Communication. Il vero obiettivo della campagna era promuovere l’Ursa Award: best project for a better tomorrow, un bando per un progetto architettonico innovativo ecosostenibile, volto al risparmio energetico e di ridotto impatto ambientale.
Il linguaggio olistico scelto per la campagna, che voleva essere ironicamente provocatorio, aveva trovato terreno fertile nei ristrettissimi spazi lasciati all’immaginazione dal fanatismo ambientalista e animalista, finendo con lo scatenare l’ira della parte più indottrinata del web, ormai divenuta, purtroppo, maggioranza schiacciante.
Lo scherzo della Arsu Systems prosegue. Nella pagina Facebook della Arsu si legge oggi quanto segue: “Siamo davvero delusi dal fatto che la nostra missione non ti sia chiara. Ci dedichiamo a salvare il pianeta e il futuro dei nostri figli. Il modo migliore per farlo è assicurare che i nostri edifici siano isolati termicamente e utilizzare materiali biodegradabili e fonti rinnovabili. Gli insulti non cambieranno la nostra determinazione e soprattutto non faranno nulla per aiutare il nostro pianeta. Voglio cogliere l’occasione per ringraziare i nostri clienti in tutto il mondo che credono in noi e che ci stanno supportando con i loro ordini”.
Ma parallelamente – e incredibilmente – prosegue anche la campagna contro la Arsu Systems di #weareallbears, che continua ad esortare gli aderenti a fermare un inesistente massacro di orsi polari.
Predatori e prede
A margine delle notizie fasulle sui rischi di estinzione degli orsi polari, c’è da rilevare che anche il rapporto predatorio tra uomo e orso negli ultimi anni si è invertito. Se è vero che alcune popolazioni artiche sono tuttora autorizzate a cacciare gli orsi per cibarsene, negli ultimi decenni lo hanno fatto sempre meno, preferendo le foche, il pesce e altri cibi, mentre per contro si registra un numero crescente di esseri umani attaccati e uccisi dagli orsi polari.
Molti attacchi si verificano alle isole Svalbard, dove i turisti si recano spesso proprio per vedere gli orsi polari, nonostante il territorio sia letteralmente tappezzato di cartelli di avvertimento che invitano a non avventurarsi oltre senza un’arma da fuoco efficiente e carica. Nell’agosto 2011 un gruppo di studenti britannici di età compresa tra 16 e 23 anni nel corso di un viaggio organizzato dalla British Schools Exploring Society è stato attaccato da un orso polare alla periferia della cittadina di Longyearbyen. Il bilancio è stato di un ragazzo morto e altri quattro gravemente feriti. All’8 agosto dell’anno scorso risale la notizia dell’aggressione mortale subita da una turista francese.
Gli attacchi degli orsi polari sono all’ordine del giorno in Groenlandia, Islanda, Alaska, Canada e Russia. Il 1° settembre 2016 si diffuse in rete la notizia che un gruppo di cinque climatologi russi del servizio Sevgidromet era assediato nella base artica russa di Troynoy, isola dell’arcipelago di Izvesty Tsik, nel mare artico di Kara, da un branco comprendente una dozzina di orsi polari. Il 31 agosto il branco si era avvicinato alla base e aveva sbranato un cane da slitta. In breve tempo i ricercatori avevano esaurito la scorta di razzi di segnalazione, utilizzati per allontanare gli orsi. Erano stati quindi costretti ad interrompere le attività all’aperto, in attesa dell’arrivo della nave appoggio, che tuttavia sarebbe giunta solo dopo un mese. L’SOS dei ricercatori russi fu comunque raccolto dalla nave russa Akademik Tryoshnikov, che riuscì a raggiungerli e a rompere l’assedio degli orsi, rifornendo gli scienziati di cibo e bengala.
La portavoce di Sevgidromet, Yelena Novikova, non perse l’occasione per attribuire il comportamento anomalo (?) degli orsi al cambiamento climatico: “Il ghiaccio recede velocemente – spiegò la Novikova – e gli orsi non hanno il tempo di nuotare fino alle altre isole. Ma a Troynoy non c’è cibo e perciò sono andati alla stazione meteo”. La domanda sorge spontanea: ma di cosa campavano gli orsi di Troynoy prima dello scioglimento stagionale dei ghiacci, visto che sull’isola gli orsi polari ci sono sempre stati?
La notizia più recente risale allo scorso 17 gennaio, quando un orso polare, dopo avere dato la caccia ad altre persone, ha attaccato e ucciso una madre ventiquattrenne e il suo bambino di un anno a Wales, nella penisola di Seward, Albaska. Anche in questo caso, l’emittente KTUU, nel dare la notizia dell’aggressione, ne ha attribuito la responsabilità al cambiamento climatico, che costringerebbe (perché mai?) gli orsi ad avvicinarsi alle aree antropizzate.
Di fronte al fervore degli ambientalisti e degli animalisti, l’ONU ha addirittura anticipato i tempi e nel 2005 ha istituito la “Giornata internazionale dell’orso polare”, che cade ogni anno il 27 febbraio. Si accompagna idealmente alla “Giornata internazionale del gatto nero” (che cade il 17 novembre); il quale purtroppo, come l’orso polare, non sarà mai consapevole di tanta considerazione. E non manca neppure la “Giornata internazionale per la prevenzione dello sfruttamento dell’ambiente nella guerra e nei conflitti armati” (che cade il 6 novembre). Qual è il significato di quest’ultima ricorrenza? Non mi viene in mente altro: “Ammazzatevi pure, gente, ma non inquinate!”.
Ugo Spezia, 28 gennaio 2022