L’amletico dubbio leninista travolge il ministro di polizia della destra “post fascista” chiamata ad infinite conferme democratiche: che fare? Consentire, sabato, la manifestazione degli esagitati pro-Pal, che poi sono pro-Hamas, pro-Hezbollah? O vietarla in nome dell’ordine pubblico? Che dilemma! Una di quelle dannate faccende per cui come ti muovi, ti muovi male. Soffocare il dissenso, seppur rumoroso, non pare opzione delle migliori, ma se poi ci scappa il morto, crolla il governo. E che il morto, per dire il guaio, ci scappi non ci sono dubbi: lo cercano e lo dicono, e come li tieni trentamila fuori di testa pieni di fregole sovversive, dai Carc ai centri sociali in saldatura con gli infiltrati islamici? Se neghi la manifestazione ti azzannano in fama di fascista, ma può un regime democratico spingere la sua tolleranza al punto da rischiare di venirne travolto?
Il governo Meloni viene da due anni di linea morbida sull’ordine pubblico, talmente morbida, checché ne speculi la sinistra, da sconfinare nel lassismo, secondo non pochi; e se c’è una cosa che l’inchiesta milanese sulla mafia da stadio, in rapida espansione fino alla Capitale, sta dimostrando è che di tempo da perdere non ce n’è più, che chiudere gli occhi sui legami fra organizzazione criminali indigene e di importazione è assurdo, e controproducente anzitutto per chi ha la gestione del potere e la sua responsabilità. Un verminaio quello all’ombra di San Siro come di tutti gli stadi italiani, una palude mefitica dove non sembra salvarsi nessuno, dove i boss della ‘ndrangheta la fanno da padroni nel sostegno ora vile ora connivente di istituzioni, dirigenze dei club, allenatori, calciatori, fino ai rapper malavitosi e alla malavita comune in funzione di supporto.
In questo quadro entrano anche le esagitazioni politiche, ma un quadro già abbondantemente infiltrato, già fuori controllo; e affidare la gestione dell’ingestibile a sole forze di polizia mandate allo sbaraglio, tenute al contenimento fatalistico non si può più, è una strategia che non tiene più. Lasciarli liberi di sbavare, di vaneggiare quelli del “fratello Nasrallah, compagno Sinwar”? Giusto in democrazia, non fosse che qui si predica la sovversione attiva, la strage programmatica e dalla evocazione all’azione ci corre un passo talmente sottile che nessuno può permettersi di verificare quanto sottile. E questo è il motivo per cui il Viminale sembra orientato, a quanto lascia capire, a non rischiare: meglio accettare le solite accuse di repressione, che lasciano il tempo che trovano, che tanto scattano comunque, piuttosto che mettere a repentaglio un esecutivo e, in definitiva, l’equilibrio del Paese.
C’è anche un approccio diverso ed è quello della polizia del controllo, dei Servizi: falli sfilare e prendi nota. Ma dopo aver preso nota, che fai? L’Italia europea e democratica, inserita nella tradizione occidentale, non può permettersi forzature iraniane o israeliane, glielo vieta l’intreccio di leggi ipergarantiste e di convenienze politiche: li guardi sfilare, fermi per qualche ora qualche straccio, li schedi tutti ma dopo non puoi andarli a prendere, non puoi rinchiuderli, devi lasciarli liberi di imperversare e non tutti sono teste calde ma innocue come lo chef Rubio che cura gli affari, cura la sua immagine per la campagna elettorale: c’è sempre nel gran casino sovversivo qualche coglione che prende sul serio la farsa, che non capisce sia questo solo un gioco, la recita del fanatismo opportunistico che fa comodo alla sinistra, al Pd che manda allo sbaraglio le sue avanguardie nostalgiche e poi è costretto a fingere di dissociarsi, a difendere la senatrice a vita Segre, messa in fama di Mata Hari.
Pare che a Milano si sventino una decina di attentati al giorno: ce ne compiacciamo, ma senza fingerci sollevati, senza negare a noi stessi che la strategia di controllo delle metropoli italiane è improntata a puro contenimento difensivo al limite del fatalismo; e allora, forse, di giocarsi la catastrofe da quelli che inneggiano all’Intifada, alla rappresaglia continua, non è proprio il caso. Perché è vero che le opinioni, anche le più pazzoidi o miserabili, vanno rispettate, tutelate; che il dissenso va protetto per quanto pretestuoso o irragionevole; ma qui siamo alla serena apologia di sovversione, allo stragismo invocato, cosa che nessuna democrazia europea si è mai sentita di poter accettare. Di qui il dilemma nel dilemma: se gli consenti questo, finisci per avallare un chiaro reato perfino a termini costituzionali. Tanto più che gli organizzatori hanno sfidato lo Stato, lo hanno chiamato a prova di forza: voi ci proibite di esaltare il terrorismo e noi siamo pronti a farlo lo stesso e perfino a scatenarvelo in pancia. E sono in trentamila a dirlo, a minacciare. Ora, può uno Stato che non scade nel ridicolo piegarsi al ricatto di chi lo provoca fino a questo punto?
È il solito atroce dilemma della democrazia: fino a quando tutelare il diritto di chi vuole travolgere la democrazia. E nessuno ha mai saputo fornire una risposta definitiva, risolutiva. Come ti muovi, ti muovi male. Se vieti sei fascista, se cedi sei imbelle e magari complice: certo non vorremmo essere nei panni di Piantedosi, pover’uomo e povero ministro.
Max Del Papa, 2 ottobre 2024
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