Che il movimento delle sardine riesca a riempire le piazze a far parlare di sé stampa, radio, tv, blog e twitter vari è innegabile. Che si tratti di giovani motivati e in buona fede è altrettanto certo. A molti hanno ricordato il ’68 ma, a mio avviso, a torto. Le differenze, infatti, sono varie e rilevanti. Innanzitutto, di natura ideologica. Il ’68 fu segnato da una forte componente marxista e di critica radicale al “sistema”(capitalistico, of course) e, inoltre dal disegno ambizioso di costituire un asse di acciaio tra le avanguardie studentesche e la classe operaia non ancora socialdemocratizzata.
In secondo luogo, il terreno dello scontro, la posta in gioco. Gli studenti riprendevano la bandiera rivoluzionaria che i partiti della sinistra avevano riposto nell’armadio per chiamare a raccolta una società civile liberata dalle catene della morale borghese e del tradizionalismo cattolico. In terzo luogo, le “armi della critica”. Il ’68 fu contraddistinto da un’elevata erogazione di violenza che le frange più radicali avrebbero trasmesso alle Br. Nulla di tutto questo richiama il fenomeno delle sardine. In primis, la loro ideologia nella pars destruens, è (almeno apparentemente) “leggera” e fatta di negazioni condivisibili – antifascismo, antisovranismo, antirazzismo etc. – mentre, nella pars construens, è costituita dagli ingredienti classici del “buonismo”, dalla filosofia dell’accoglienza alla condanna della guerra e dello sfruttamento della natura.
L’obiettivo polemico, per venire al secondo punto, non è costituito dalle classi dirigenti economiche, politiche, religiose, come nel ’68. È il ventre molle della società civile che esse odiano, sono i demagoghi che diffondono ansie e paure per il “diverso” e che, per questo, rappresentano una minaccia sia per la democrazia sia per l’etica universalistica ereditata dal cristianesimo e dall’illuminismo. Infine, gli strumenti di lotta. Le sardine sono non violente, ripudiano lo stile dei centri sociali, rifuggono dai pugni chiusi esibiti dagli antagonisti. E tuttavia, ricordate e sottolineate queste differenze, non mancano le analogie. Ad accomunare ’68 e sardine, è per così dire il “momento francescano” ovvero la rivolta del Movimento contro le Istituzioni e il richiamo di queste ultime alla coerenza, al dovere di difendere i valori tanto sbandierati a parole coi fatti.
Tali indubbie analogie confermano il fatto che sia negli anni ’60 che oggi, il senso dello Stato di diritto e l’etica liberale non sono mai entrati nelle nostre scuole. La democrazia è sempre stata intesa non come un sistema di regole, ma come un “mezzo” volto a procurare benessere e felicità ai popoli. La libertà politica è benedetta solo come «libertà per il bene» e i partiti hanno pieno riconoscimento morale e costituzionale solo se si pongono al servizio delle buone cause. In tal modo, i valori degli altri diventano disvalori, i loro programmi di governo attentati ai diritti dei cittadini. Cosa fanno i partiti di sinistra e gli organi di governo per porre argine a questa deriva?
Di qui il paradosso, fatto rilevare da molti, di un movimento che non marcia contro il governo ma contro un’opposizione che potrebbe andare al governo: qualcosa che fa venire in mente non il ’68 ma il «dì una parola di sinistra» dei girotondi d’antan, lo svegliarino dato i “nostri” che se ne stanno lì a guardare mentre la reazione avanza. Entrambi, sardine e sessantottini, sono i pasdaran di una nuova stagione culturale ma i secondi in nome di una classe operaia tradita, le prime in nome di una generica comunità politica rimasta priva di ancoraggi spirituali.
Le sardine, nelle loro adunate oceaniche, saranno pure poco violente in senso fisico ma, nella sostanza, rappresentano il prodotto delle nostre istituzioni educative. Si dicono al di fuori della politica ma fascistizzando gli avversari, intonando Bella ciao per segnare una “identità” forte e divisiva, invitando a “legare” Salvini, tallonando il capitano nei suoi spostamenti, impedendogli di passeggiare nelle vie della città dopo un comizio ( che non possono impedire) – lo ha ricordato Paolo Armaroli in un articolo sul Dubbio di alcuni giorni fa – non rappresentano certo un modello di civiltà e di tolleranza in un Paese allo sfascio come il nostro.
Dino Cofrancesco, Il Dubbio 14 dicembre 2019