La bandiera rossa dell’Iman Al-Ḥusayn ibn (الحسين بن على بن ابى طالب) secondo figlio di ʿAlī ibn Abī Ṭālib e di Fāṭima, figlia del profeta Maometto, terzo Imām dallo sciismo, è stata innalzata sulle moschee sciite (come potete vedere nel video qui sotto) dopo l’eliminazione del Generale Qassem Soleimani da parte degli Usa. Lo stesso simbolo, che ha diversi significati, dallo stato di guerra alla battaglia o alla vendetta, era rimasto ben visibile dal settembre 1980 all’agosto 1988 durante la guerra Iran – Iraq. Il segnale visivo accompagnato dai proclami e dalle minacce che arrivano da Teheran, non promettono nulla di buono. Anzi, secondo la maggioranza degli analisti occidentali, gli scenari che si prospettano all’orizzonte sono vari e nessuno di loro fa sperare per il meglio.
Ghulam Ali Abu Hamza, uno dei comandanti delle Guardie rivoluzionarie iraniane, citato dall’agenzia stampa di Teheran, Tasnim, ha dichiarato che ci sono 35 obiettivi americani a portata dei Pasdaran, per la precisione ha detto che oltre a Tel Aviv ci sono 35 obiettivi americani nella regione a portata dei lanci di missili o da colpire in qualche modo. Della lista, per sua stessa ammissione, fanno parte anche lo Stretto di Hormuz, passaggio nevralgico di petroliere e di navi da guerra americane, il Golfo di Oman e il Golfo Persico. La replica del Presidente Trump affidata a Twitter, tutti sanno quanto Donald Trump ami questo social, non si è fatta attendere ed è stata di quelle che non lasciano dubbi: se l’Iran colpisce americani o asset americani, gli Usa colpiranno molto duramente l’Iran. Gli Stati Uniti, ha proseguito il Presidente, hanno già individuato 52 siti, alcuni ad un livello molto alto e importante per l’Iran e la cultura iraniana. Quegli obiettivi e l’Iran stesso, saranno colpiti e distrutti molto velocemente e molto duramente. Gli Stati Uniti non accettano e non si piegheranno a minacce di alcun tipo.
Siccome l’attrito in corso è fatto di simboli e provocazioni, anche la Casa Bianca ha adottato questo tipo di “linguaggio” ricordando che furono cinquantadue gli ostaggi americani presi dall’Iran nell’ambasciata Usa a Teheran. In tutta sostanza ha voluto mettere in chiaro che se la prossima guerra si baserà su vendette incrociate anche gli americani hanno dei conti in sospeso. Nella serata di sabato Bagdad è stata colpita da alcuni colpi di mortaio e razzi che hanno causato sei feriti, di cui due in gravi condizioni, e diversi danni. Secondo fonti citate da Al-Arabiya e Al-Hadath, è stata colpita la zona di piazza della Celebrazione, in piena Green Zone, la parte di Bagdad che ospita le ambasciate occidentali, e le vicinanze dell’hotel Babylon situato alle spalle dell’ambasciata americana. Tre dei sei feriti sono stati causati da un missile che ha colpito il quartiere Jadriya.
Anche la basa aerea di Balad, a Nord della capitale irachena, la stessa da dove presumibilmente erano decollati gli elicotteri e i droni che hanno eliminato Soleimani e il leader delle Pmu Abu Mahdi Al-Muhandis, è stata colpita da alcuni colpi di mortaio che hanno ferito tre soldati, a confermare questa notizia è stato Sahi Abd al Amri, il comandante iracheno della base. Due dei tre colpi di mortaio sono caduti fuori dal compound, mentre un terzo ha danneggiato la pista di decollo e atterraggio. Fra tutte le notizie che girano in queste ore quella che mette più ansia è l’avvertimento dato dal comando delle Kataib Hezbollah, alleato dell’Iran, a tutti i combattenti iracheni di spostarsi, dalla mezzanotte di oggi, ad almeno un chilometro di distanza dalle basi statunitensi. Questo per evitare che musulmani possano rimanere coinvolti in eventuali attacchi o attentati alle truppe Usa di stanza in Iraq.
Questa notizia, riportata dalla televisione al-Mayadeen, è stata ripresa anche da Sky News Arabia che ha riportato per intero il testo del comunicato: “Le forze di sicurezza devono stare alla larga dalle basi americane per una distanza non inferiore a mille metri a partire da domenica sera”.
Questa minaccia intrinseca è stata presa molto seriamente dal Pentagono, infatti altri 2800 militari sono stati inviati nel teatro del conflitto, per lo più in Kuwait, al fine di preparare per bene la macchina da guerra a stelle e strisce nell’eventualità, sempre più probabile, di un’escalation che potrebbe interessare anche altri stati della regione.
Michael Sfaradi, 5 gennaio 2020