I dati diffusi alcuni giorni fa da Confcommercio mostrano un’accentuazione del fenomeno della desertificazione commerciale, che appare più accentuata nei centri storici rispetto alle periferie e interessa tanto il Centro-Nord che il Mezzogiorno. In particolare, «Nei centri storici sono sempre meno le attività tradizionali (carburanti -40,7%, libri e giocattoli -35,8%, mobili e ferramenta -33,9%, abbigliamento -25,5%) e sempre più quelle che offrono servizi e tecnologia (farmacie +12,4%, computer e telefonia +11,8%), oltre alle attività di alloggio (+42%) e ristorazione (+2,3%)».
Per porre rimedio a tale situazione, e contrastare di conseguenza la desertificazione commerciale, è stato chiesto di intervenire con progetti di riqualificazione urbana per mantenere servizi, vivibilità, sicurezza e attrattività delle città.
Invero, è il caso di rilevare che, se tali dati hanno il merito di ulteriore sensibilizzazione rispetto a una situazione di degrado dei centri storici che si fa sempre più allarmante, dall’altro non sembra possano essere invocati per richiedere l’impiego dell’armamentario tipico dell’interventismo statale e pubblico e della pianificazione urbanistica per porre rimedio a detta situazione. Il degrado di cui si discute, cui è correlata la denunciata desertificazione commerciale, è piuttosto la diretta conseguenza dei numerosi interventi pubblici che si sono susseguiti negli anni in forza della legislazione che li ha autorizzati e finanche promossi o sostenuti, soprattutto dalle potenti armi ideologiche degli intellettuali, politicamente orientati. Essi sono stati esplicitati sia in sede di pianificazione urbanistica con la zonizzazione del territorio sia con il controllo degli affitti, ai quali si è aggiunta la leva fiscale, con numerosi tributi nazionali e locali.
In particolare, con il primo strumento, ancorato alla credenza, che si è fatta strada nel ‘900, che le città e la società dovessero essere progettate dall’alto verso il basso per generare efficienza, comunità e prosperità, e non lasciate alle scelte individuali e al mercato, come avveniva in passato, i decisori pubblici hanno potuto pianificare il territorio e imporre aree separate per le diverse attività, residenziali, commerciali, industriali, ecc., assoggettato completamente la proprietà immobiliare al controllo pubblico per favorirne una pretesa sua “funzione sociale”, impedito ai privati di scegliere se costruire su un proprio terreno e, men che meno, cosa costruire su di esso. In siffatta attività pianificatoria non hanno ovviamente tenuto o potuto tener conto che per le diverse scelte avrebbero dovuto essere considerate una complessa serie di variabili, ognuna delle quali interagiva con il resto dell’economia. Né hanno considerato gli eventuali cambiamenti, nelle comunità – come la crescita della popolazione, il cambiamento demografico o la crescita o diminuzione del benessere – che avrebbe potuto dare origine a nuove richieste per determinati tipi di proprietà e usi della stessa, e imposto modifiche, nella maggior parte dei casi anche repentine, in ordine allo sviluppo e agli impieghi dei beni per essere adattati al fine di soddisfare le mutevoli richieste.
Con il controllo degli affitti, posto in essere con diverse misure legislative, utilizzate di volta in volta, e anche cumulativamente, che hanno coperto, e ancora coprono, una vasta area rimessa in precedenza alla libertà contrattuale delle parti, come, ad esempio, i provvedimenti di blocco degli sfratti, l’imposizione di una durata minima dei contratti di locazione (addirittura di sei anni per gli usi diversi da abitazione) e il rinnovo quasi automatico degli stessi, limitazioni agli aumenti dei canoni in misura inferiore all’inflazione o al costo della vita, ecc., è stata soffocata la vitalità del mercato immobiliare e ridotto il valore creato dagli scambi e dalla concorrenza, rendendo impraticabili le soluzioni e gli incentivi che questa determina. I proprietari e costruttori sono stati così scoraggiati dal mantenere l’offerta esistente o di prendersi dei rischi per produrne di nuova, le quali cose hanno peraltro finito per far aumentare artificialmente la domanda di immobili e creato una carenza nel mercato. A loro volta i conduttori hanno spesso dovuto desistere dal ricercare unità confacenti e persino dall’intraprendere o mantenere attività commerciali, artigianali, professionali o altro.
Infine, attraverso la tassazione sugli immobili, particolarmente elevata e penalizzante, sono state influenzate le scelte individuali e quelle delle imprese in merito ai consumi, al lavoro, al risparmio e agli investimenti, prodotto di conseguenza un’alterazione dei loro comportamenti e determinato un’inefficiente allocazione delle risorse, per essere impiegate in ambiti e settori scelti da politici e burocrati. Le imposte, inoltre, hanno pure scoraggiato l’attività contrattuale, sovente ponendosi come ostacolo insormontabile e impedendo l’incontro di domanda e offerta. In proposito è sufficiente richiamare il diverso regime fiscale che può trovare applicazione per le locazioni a uso abitativo, con l’opzione per la cedolare secca al 10 o al 21 per centro, rispetto agli affitti a uso diverso, negozi e uffici in primis, assoggettate alla disciplina ordinaria (per la sola registrazione del contratto è prevista un’imposta di registro pari all1% o al 2% se uno dei due soggetti non è in possesso di Partita Iva).
Da quanto sopra evidenziato appare evidente come sia ormai ineludibile una riforma che apra le porte al mercato e alla libera scelta individuale. E tanto sia per quanto riguarda gli ambiti urbanistici e dell’edilizia, nei quali potrebbero essere adottati modelli di riqualificazione e di sviluppo del territorio secondo regole privatistiche, mediante il consenso espresso in atti giuridici privati anziché imposte da autorità pubbliche. A tale scopo si potrebbero efficacemente mutuare positive esperienze di alcune realtà degli Stati Uniti mediante alcune semplici cambiamenti volti a consentire agli individui di vivere, abitare e operare in realtà create veramente da loro e a loro misura. Per le locazioni, dovrebbe essere finalmente messa la parola fine all’ultracentenario regime vincolistico e all’altrettanto datata legge dell’”equo canone” (che ancora oggi disciplina le locazioni a uso diverso da abitazione), che hanno ingessato il mercato, in favore della piena libertà delle parti e della loro autonomia contrattuale. Al riguardo è emblematica la recentissima iniziativa del premier argentino Javer Milei, che è intervenuto con decisione per liberalizzare gli affitti nel suo Paese. I risultati non hanno tardato ad arrivare, come hanno messo in luce i resoconti stampa degli ultimi giorni. La riforma dovrebbe pure comprendere la tassazione dell’intero settore, che andrebbe contenuta in limiti davvero minimi, senza alcun ulteriore appesantimento nazionale o locale e con estensione anche al settore degli affitti non abitativi dell’opzione fiscale della cedolare secca, vieppiù contenuta nella misura del 10 per cento.
Impiegare altri strumenti o percorrere altre strade non solo non arresterà la crisi del settore, ma finirà per aggravarla ulteriormente, e forse irreversibilmente.
Sandro Scoppa 13 febbraio 2024
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