Tomas Sowell nasce poverissimo e solo grazie ad una piccola borsa di studio per i reduci della guerra in Corea, riesce a studiare economia. È appena uscita la biografia di questo fenomenale afroamericano del Bronx, che nel tempo diventerà il più acerrimo nemico teorico del salario minimo. Lui, il ragazzo che non ha mai terminato gli studi liceali e che ha passato l’infanzia in case rifugio dormendo con il coltello sotto il cuscino, con i suoi studi ha spiegato al mondo una massima liberale: l’inferno è lastricato di buone intenzioni: «Ve lo dice uno, che quell’inferno lo conosce bene», dice l’economista.
Sowell c’entra molto con l’economia italiana. Sono decenni che parliamo dei «poveri» del nostro sistema: piccole imprese che però tengono vivo il nostro tessuto imprenditoriale. Quelle piccole imprese che, a parole, la politica, di ogni colore, cerca di aiutare, ma che sono sempre le più bastonate. Ma quando si passa dalle chiacchiere ai fatti, l’Italia si dimostra un Paese davvero poco riconoscente per la sua imprenditorialità. Ieri la Cgia di Mestre ha messo nero su bianco ciò che da tempo intuivamo: «Le piccole imprese pagano l’energia il doppio e il gas il 178 per cento in più delle grandi». A ciò si aggiunga il confronto internazionale: chiunque si azzardi a fare affari in questo Paese, sa che pagherà l’energia elettrica più dei concorrenti internazionali. Il gasolio in Italia ha il prezzo di produzione più basso d’Europa, e il costo finale, grazie alle tasse, più alto. E per di più inquiniamo meno dei nostri diretti concorrenti: si calcola che l’italiano produca il 30 per cento di CO2 in meno rispetto ai tedeschi, nonostante abbia circa il doppio di tasse ambientali. Quando i politici, quando i «climatisti» si fanno belli delle energie rinnovabili (circa 18 miliardi di oneri impropri in bolletta all’anno), converrebbe pensare a chi li paga.