Macron vende Airbus per 30 miliardi di euro alla Cina e subito Trump mette dazi sull’aereo franco-tedesco perché riceve aiuti di Stato e fa concorrenza sleale alla Boeing. Erdogan, che si scontra con gli Stati Uniti dall’epoca del fallito golpe militare partito dalla base americana di Incirlik (luglio 2016) e flirta con la Russia, subisce una dura sconfitta alle elezioni (amministrative) e in pochi giorni i suoi alleati in Libia sono attaccati – coi soldi sauditi – dalle truppe di Bengasi, mentre il suo amico Bashir, dittatore in Sudan, è deposto e arrestato. L’attacco al governo di Tripoli, espressione di un Islam politico promosso da Obama e finanziato dal Qatar, mette in difficoltà anche il suo principale sponsor europeo – l’Italia appena reduce da un memorandum d’ intesa con la Cina. In Israele Trump riconosce l’annessione del Golan e offre a Netanyahu un formidabile assist per vincere le elezioni: ciò consolida l’asse con i sauditi e i sunniti arabi che argina la spinta dell’Iran verso il Mediterraneo via Siria, Hizbollah e palestinesi (in crisi strategica e sempre più sussidiati da Teheran) e in prospettiva punta a stabilizzare la regione.
La politica americana riprende vigore e persegue obiettivi a largo raggio. È la prima conseguenza – ma ce ne saranno altre – del Russiagate che finisce senza clamore e gloria: il suo flop ormai ufficiale segna un punto di svolta nella Presidenza Trump e accelera processi di revisione (ricostruzione?) dell’ordine mondiale che durano da tempo. Il Russiagate è stato il punto più alto dell’attacco sferrato dalle dinastie (Bush, Clinton, Obama, al potere dal 1992 al 2016) e dagli old media (New York Times, Washington Post, Cnn ecc.) contro l’intruso Trump e per due anni ha limitato lo spazio di manovra americano nella politica internazionale. Oggi Trump, mentre emergono indizi di interventi Fbi per sorvegliare la sua campagna elettorale, ha le spalle coperte all’interno ed esprime un potere non più insidiato nella sua stessa esistenza. Ciò muta i rapporti di forza nelle partite in corso con Cina, Russia, Germania (e l’Europa a rimorchio), Iran.
La partita principale è con la Cina e sarà il perno su cui girerà la politica mondiale dei prossimi anni. Aiutato da Clinton e dai Bush, che credono al basso profilo politico dei successori di Deng e apprezzano l’ampio spazio da essi lasciato ai big della finanza, non contrastato da Obama, che pure verso fine mandato ne coglie il pericolo, l’Impero di mezzo trova un avversario deciso e pienamente consapevole solo con Trump, arrivato alla presidenza grazie ai voti di chi ha perso reddito e status per l’invasione di merci asiatiche a basso costo. I dazi commerciali sembrano l’antipasto, la mossa d’inizio di uno scontro che ha il suo cuore nella competizione per le tecnologie d’avanguardia (Intelligenza artificiale, telecomunicazioni) e toccherà l’acme dopo il 2020 (soprattutto se Trump sarà rieletto).
La partita con la Germania (e con l’Europa) ne è la derivazione, una coda. Per anni l’Europa, in nome dei comuni ideali democratici, ha ottenuto sicurezza a basso costo dagli Stati Uniti; al contempo, però, ha sviluppato strategie mercantiliste (primato degli avanzi commerciali) che l’hanno sempre più avvicinata alla Cina accrescendo i reciproci scambi e soprattutto allineando gli interessi politici. Già Obama ebbe frizioni con la Germania bottegaia di Angela Merkel. Oggi Trump sembra voler regolare i conti con gli alleati europei come passo preliminare per isolare la Cina e togliere spazio alla sua espansione. Per la Germania e gli Stati Ue, che ne rappresentano lo spazio economico, non è una bella situazione: in una congiuntura fragile, i cinesi si rivelano potenti rivali, gli americani sono ostili e una revisione strategica – già di per sé complicata – va oltre, a quanto pare, la capacità dei leader attuali. Se le idee di Germania e Francia sul futuro dell’Ue divergono sempre più, il motivo c’è ed è grosso come una casa.
La Russia è un tema spinoso. Dall’epoca Eltsin gli americani – apparati militari e finanza – hanno puntato prima sulla perdita di forza dello Stato russo e poi sulla sua crisi economica (sproporzione tra la rendita petrolifera e gli impegni di potenza): a questa visione risale lo sforzo ventennale di contrarre la sfera d’influenza di Mosca (Balcani, Caucaso, Ucraina) e di portare la Nato dentro il cuore del mondo russo. Ma quando lo scontro con la Cina diventa il motivo principale, l’idea di punire Putin, che da vent’anni resiste facendo leva sull’orgoglio nazionale, perde significato: staccare la Russia dalla Cina appare una priorità strategica. Sarà probabilmente il tema-chiave dopo le elezioni del 2020. Già si vede qualche avvisaglia: probabile vittoria nelle presidenziali dell’Ucraina di un candidato diverso dai fanatici anti-russi, convergenze sotto traccia in Siria.
Gli Stati Uniti concentrano la loro attenzione strategica: riconquistano l’America Latina, affidano il Medio Oriente all’impensabile alleanza tra Israele e sauditi (+ Egitto), si dedicano a bloccare la corsa della Cina verso la supremazia mondiale. C’è metodo strategico nell’apparente follia di Trump.
Antonio Pilati, 18 aprile 2019