Nella vorticosa giostra delle nomine europee, da spartire in base a nazionalità, partiti e quote rosa (al confronto il manuale Cencelli è un gioco da ragazzi), è spuntato all’improvviso – dopo il veto di Macron a Manfred Weber, il candidato dei popolari per la presidenza della Commissione – anche il nome di Mario Draghi. Quasi subito il diretto interessato ha fatto sapere di non voler essere coinvolto. Tuttavia già la sola ipotesi, inedita e così dirompente per il cerimoniale di Bruxelles, dice molto sulle complicazioni e l’asprezza dello scontro ora in atto.
Il punto di partenza è la veemente iniziativa di Emmanuel Macron per togliere alla Germania e ad Angela Merkel, in visibile declino, la regia dei giochi europei. Tuttavia anche Macron non è messo bene: contestato e minoritario in patria, alla guida di un gruppo liberale diviso e rissoso (i nazionalisti di Ciudadanos, che governano Madrid e l’Andalusia con i franchisti, hanno poco a che vedere con gli scandinavi cosmopoliti e inclini a sinistra) mostra ambizioni non commisurate alla forza reale.
La candidatura di Draghi avrebbe tutti i requisiti per fermarlo. Potrebbe delineare una coalizione fra italiani, popolari tedeschi, baltici filo-americani molto forte. Ne sarebbe agevolata anche l’ascesa a presidente della Bce di Jens Weidmann che, grazie al prestigio dell’attuale governatore, vedrebbe smussati i propri spigoli concettuali tedesco. Persino i toni sprezzanti, quasi provocatori, del primo ministro olandese Mark Rutte (liberale) nei confronti dell’Italia (debito, Sea Watch) forse si spiegano in questa chiave.
Gli Stati Uniti sembrano osservare dietro le quinte, ma con grande interesse, tutta la partita. E’ difficile pensare apprezzino un candidato di Macron, che si è segnalato più volte – difesa europea, aerei venduti alla Cina – per mosse ostili. Nel giro di pochi giorni Trump prima ha attaccato la politica monetaria di Draghi, giudicata troppo lassista e quindi penalizzante per il commercio americano, e poi ha espresso grande stima alla persona (“lo vorrei alla Fed”). In effetti con un presidente come Draghi, la cui formazione è per larga parte d’impianto americano, l’attuale scontro su avanzi commerciali, dazi, rapporti con la Cina prenderebbe toni e movimenti meno aspri.
Ora, senza un colpo d’ala l’incastro diventa difficile e lascia comunque prospettive incerte. Nel momento in cui Putin, nella mega-intervista al Financial Times, vuole scongelare le relazioni anglo-russe e, atteggiandosi a grande leader ideologico ma dotato di un solido pragmatismo, apre con prudenza a un rapporto più equilibrato con l’Europa, una guida della Commissione autorevole e dal marcato tratto di coesione occidentale potrebbe segnare – finalmente – un cambio di passo.
Antonio Pilati, 29 giugno 2019.