Devi comprare o vendere casa? Occhio ai tuoi dati biometrici e sessuali. Potrebbero un domani diventare parte, molto preziosa, della compravendita immobiliare. Pensate se per acquistare o vendere una casa, le agenzie immobiliari vi obbligassero a fornire il consenso al trattamento dei vostri dati personali “particolari”. Attraverso un formulario che si basa, in modo piuttosto “creativo”, sulle deroghe previste dal Regolamento europeo 2016/679, anche noto con la sigla GDPR. Quel Regolamento generale sulla protezione dei dati, impiegato per ottenere il consenso a fornire il trattamento dei propri dati “di cui all’articolo 9 del citato Regolamento”. Ossia tutti quei dati personali “che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona”. Qualcuno dei lettori, a questo punto, sarà sobbalzato. O si sentirà almeno in dovere di rileggere l’intero paragrafo, definito al punto B del modello sul consenso alla Privacy che ci è stato sottoposto, giorni fa, a corollario di una trattativa immobiliare.
Può un’agenzia immobiliare, o un qualsiasi altro attore pubblico o privato, vincolare un venditore o un acquirente di un immobile alla cessione di dati così sensibili – i più sensibili in assoluto “sotto il profilo dei diritti e delle libertà fondamentali, dal momento che il contesto del loro trattamento potrebbe creare rischi significativi per i diritti e le libertà fondamentali”, come sottolinea il nostro garante della privacy al punto 51 delle sue considerazioni al Regolamento Ue – e stabilire, al punto A del modulo citato, che “il mancato consenso al trattamento dei dati personali necessari impone all’Agenzia di astenersi dall’instaurare, eseguire ovvero proseguire il rapporto, la prestazione professionale e le operazioni connesse”? È vero che sempre al punto B viene specificato che il trattamento “potrebbe” riguardare i nostri dati particolari di cui all’articolo 9, cioè quelli precedentemente elencati, e che è possibile negare il consenso al trattamento di questa determinata fattispecie. Ma cosa garantisce, a questo punto, che l’Agenzia immobilaire non decida di rifiutare l’incarico? E per quale ragione ci richiede l’eventuale trattamento di questi dati “particolari” per finalità che non sembrano avere alcuna pertinenza rispetto alle finalità del suo mandato e agli interessi dei suoi clienti e del bene in oggetto?
Questa è la domanda che abbiamo rivolto all’agente immobiliare quando ci siamo trovati a leggere il modulo sulla privacy, corollario finale alla pratica da stipulare. L’agente non ha saputo risponderci, dichiarando però una cosa un po’ allarmante: il documento sarebbe un modulo prestampato, fornito dall’associazione di categoria, che i clienti firmano, il più delle volte, senza nemmeno guardare. È vero che è possibile negare il proprio consenso. Ma chi ha invece accettato, senza magari leggere, di fatto ha autorizzato un soggetto terzo alla (possibile) gestione delle sue informazioni più delicate. Mettiamo, per esempio, che l’agenzia immobiliare sia attiva anche nel settore assicurativo o finanziario.
Quante sono le informazioni “particolari” che potrebbero essere scambiate, per esempio sulla salute, ipotizzando che il responsabile del trattamento dei dati sia sempre il medesimo soggetto? Qualcuno potrebbe, a nostra insaputa, creare una banca dati per usi diversi da quelli inizialmente intesi e/o indicati dal nostro consenso? E quali garanzie di sicurezza ci sono contro i sempre più frequenti e pericolosi attacchi cyber informatici? E la lista delle domande potrebbe allungarsi a molti altri aspetti. Facciamo un salto in Canada e negli Usa per comprendere coma il diritto alla privacy – concretamente – sia un requisito essenziale nella vita di ognuno di noi. E forse il principale baluardo per la tenuta di un sistema liberale e democratico.
Ezra Levant è il fondatore di Rebel News, uno dei pochi media di stampo conservatore nel Canada del premier liberale Justin Trudeau. Ieri ha lanciato una denuncia, ripresa dal canale Fox News, contro una discriminazione subita dalla Royal Bank of Canada. Il più grande istituto di credito del Paese, con migliaia di clienti anche negli Stati Uniti. Ecco la sua testimonianza, non l’unica di un fenomeno che sta emergendo, pericolosamente, anche negli Usa: “Ho avuto varie discussioni con un funzionario locale della banca, di cui sono cliente da decenni, sul mutuo che avevo richiesto, dopo aver presentato solide garanzie della mia azienda. Se il funzionario le avesse contestate ai fini di negarmi il mutuo, ci avrei creduto. Ma lui è stato onesto, lo definirei una sorta di whistleblower”, ha spiegato l’editore al Tucker Carlson Tonight. “Il funzionario locale”, ha proseguito Levant, “voleva concedermi il mutuo, e stava litigando col suo superiore che doveva approvarlo, ma il problema era legato al sito che dirigo, osteggiato dal premier Trudeau. Al cui partito la Royal Bank deve tantissimi privilegi in tutti questi anni, e con cui condivide molte porte girevoli, tra cui la nomina di un dirigente apicale nel ruolo di ambasciatore in Cina, la nomina di un senatore, e svariate operazioni di salvataggio pubblico di cui ha goduto”.
La conversazione di Levant con il funzionario della Royal Bank, offerta in prime time ai telespettatori americani, ha svelato un sistema simile al “redlining” bancario, e inquietantemente affine al sistema di crediti sociali in vigore in Cina. Proprio con Pechino, la Canada Royal Bank intrattiene da anni un consolidato rapporto di affari. Il redlining, invece, è una pratica discriminatoria vigente in molti istituti di credito che consiste nell’erogare servizi finanziari, tra cui mutui, prestiti e assicurazioni, solo ai clienti residenti in determinati quartieri, sulla base di una valutazione unicamente etnica o razziale. Nel caso della banca canadese, il diniego al mutuo sarebbe stato di natura esclusivamente ideologica e politica. Legato all’imbarazzo dell’istituto di finanziare l’attività imprenditoriale di una testata giornalistica sgradita al premier.
“Discriminare qualcuno per le sue convizioni politiche è ancora illegale in America?” – si è chiesto Sean Duffy, conduttore di Fox, già membro del Congresso e avvocato – “Quando puoi essere bannato da Twitter e da Facebook per le tue idee, buttato fuori da internet come accaduto alla piattaforma “Parler”, estromesso nella raccolta di fondi da “WePay”, quale potrebbe essere il prossimo passo della discriminazione in questo Paese? Il Canada può darci un’anticipazione del futuro”.
Ma occhio anche all’Italia. Attenzione a non distruggere, magari col pretesto delle strabordanti normative anti-Covid, ogni tutela della nostra privacy. La tentazione (e la pressione) è già da tempo molto forte. Ma la protezione dei nostri dati sensibili è forse l’unica/ultima polizza di assicurazione che abbiamo contro ogni (im)prevedibile abuso. Politici ed editori, così come i loro finanziatori, farebbero bene ad anticipare il futuro.
Beatrice Nencha, 2 gennaio 2022