Il socialismo era una cosa seria, e nessuno lo sa meglio dei liberali. Nella storia ha indossato varie maschere, da quella criminale di Lenin a quella nobile di Turati, ma era difficile aspettarsi che si riaffacciasse alle cronache col faccione di Giuseppe Sala, detto Beppe. Già bocconiano, vicepresidente Pirelli, direttore generale Tim, consulente senior per Nomura Bank, direttore generale del Comune di Milano voluto da Letizia Moratti, amministratore delegato di Expo. Un lungo cursus honorum nella grande crociata per l’emancipazione del proletariato, culminato nella candidatura a sindaco di Milano per il partito egemone nel Quadrilatero della Moda, il Pd.
In possesso da sempre della capacità innata di intuire dove si libererà la prossima poltrona, figuratevi se Beppe non coglieva quel che è ormai evidente a chiunque, ovvero che la credibilità della leadership a sinistra di Nicola Zingaretti è un gradino sotto quella della categoria dei virologi dopo tre mesi di pandemia. E infatti già da tempo ha dato il via alle grandi manovre per l’ennesima operazione autopromozionale, raccontarsi come l’alfiere di un inesistente modello progressista meneghino, quando è noto da decenni che Milano sta con i piedi ben piantati nella modernità per esclusivo merito dei milanesi, nonostante i suoi governanti, non grazie ad essi (e questa peraltro è la sconfitta empirica di ogni “socialismo”, l’ideologia che evapora di fronte ai bauscia che fatturano).
Certo, ultimamente l’immagine del sindaco era un po’ appannata, essendo passata senza soluzione di continuità dall’organizzatore compulsivo di aperitivi sui Navigli (#Milanononsiferma, il Covid neppure) allo sceriffo invasato a caccia dei medesimi aperitivi sui medesimi Navigli, la movida come deviazione borghese. Niente di meglio allora che un’intervistona al Corriere della Sera firmata da Aldo Cazzullo, che incalza Beppe con quesiti scomodi, come il significato del suo ultimo libro, “Società: per azioni”. Un “titolo provocatorio”, si autorecensisce Beppe, perché “è ora di riflettere sulla società del futuro, sulla trasformazione del lavoro, sulla rivoluzione che abbiamo di fronte”.
Mao aveva torto, la rivoluzione è un pranzo di gala, passa per “gli investimenti nell’ambiente e nel digitale”, prende corpo nella “città-mondo, la città inclusiva”, quella dove se il popolo ha fame, gli si danno in pasto le piste ciclabili. In ogni caso, Beppe sente i rintocchi della Storia: “È l’ora del cambiamento: serve un nuovo socialismo”. Che è poi il vecchissimo pauperismo, condito con una buona dose di supercazzole pseudomamageriali: “Più ricchezza si crea, più si alimenta la povertà. Forse, la ricchezza ha proprio bisogno di aumentare la dimensione della povertà, se vuole crescere e stiparsi in immense concentrazioni”. Dalla Bocconi alle multinazionali all’Esposizione Universale, per finire a sinistra di Maduro.