Politica

Con la fine del reddito di cittadinanza torni il sacrificio

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Il mese di agosto porta tradizionalmente con sé la tipica atmosfera del quiescite pusillum: il rallentare dei ritmi di lavoro e degli impegni sui diversi fronti consente a tutti di avere il tempo per riflettere e di fare alcune considerazioni, sia nella dimensione della vita personale sia in quella comunitaria. In questi giorni stavo pensando alla questione del reddito di cittadinanza che porta, inevitabilmente, con sé il problema del lavoro, soprattutto il lavoro dei giovani.

Questione reddito di cittadinanza: chi mi conosce sa che sono sempre stata contraria alla sua introduzione. Il reddito di cittadinanza, infatti, ha innescato tutta una serie di illiceità e di truffe che sono andate tutte ai danni delle tasche dei cittadini che pagano le tasse. Chiaro che le fasce a reddito basso vanno supportate, chiaro che vanno introdotte politiche di sostegno economico ma la paghetta mensile, perché di questo si tratta, non poteva allora come non può oggi essere la soluzione. Non nego, assolutamente, che ci siano situazioni in cui è oggettivamente difficile trovare un lavoro, soprattutto un lavoro pagato a norma di contratto regolarmente sottoscritto. Anche di fronte a queste situazioni, il reddito di cittadinanza, come ampiamente dimostrato, non si è rivelata la soluzione al problema.

Un possibile intervento potrebbe essere, invece, l’aumento delle risorse da destinare ai servizi sociali presenti sul territorio, nei singoli quartieri o, ancora, il rafforzamento delle sinergie tra le diverse realtà che sostengono le varie povertà per arrivare ad un intervento coordinato ed efficiente. A monte, tuttavia, occorre che ci si ponga la domanda delle domande: siamo sicuri che il lavoro manchi davvero? Ripeto: io non nego l’esistenza di situazioni estremamente difficili, tuttavia, e il mio discorso non sembri riduttivo o eccessivamente semplicistico, so della difficoltà di trovare lavoratori in alcuni settori chiave per la nostra economia, quale quello della ristorazione o del turismo.

So, ancora, di opportunità di lavoro rifiutate perché veniva richiesta la presenza durante il weekend o perché lo stipendio proposto è sembrato troppo basso ad un diciottenne il cui unico titolo di studio valido era la licenza media. A rischio della noia, ma a tutto vantaggio della chiarezza, ribadisco: ho il massimo rispetto delle situazioni di povertà e di disoccupazione. Questo però non toglie che alcune situazioni si sono create perché abbiamo smesso di educare i nostri giovani, i nostri figli, alla fatica, all’impegno, alla capacità di adattarsi alle diverse situazioni. Quell’habitus mentale, altamente diseducativo, che porta a dire frasi quali “Mio figlio non deve fare la fatica che ho fatto io”, “Cosa vai a lavorare per così poco?”, “Stai a casa, tanto lavoriamo noi”, “Se i tuoi amici vanno in vacanza, devi andare anche tu”: ecco tutte queste ed altre espressioni simili hanno creato nei giovani l’idea del “Ma tanto”: tanto ci sono i miei genitori, tanto ci sono i nonni, tanto ci sarà sempre qualcuno che farà la mia parte.

Il guaio è quando uno arriva, spesso oltre la soglia dei quarant’anni, a capire che non c’è nessuno che fa la sua parte. Ecco perché vado dicendo da anni che occorre un cambio di mentalità, che occorre invertire la rotta, che occorre, da parte di tutti, un forte richiamo alla responsabilità, per sé e per gli altri. Occorre che si instauri un’alleanza tra genitori e scuola, una scuola finalmente libera e liberamente scelta da genitori, studenti e docenti, nella quale lo studente sia posto al centro e si senta protagonista del proprio percorso formativo. Il fallimento formativo è sotto gli occhi di tutti. Quindi, se è vero, come è vero, che ci sono aziende che sfruttano i giovani con contratti a tempo determinato e con retribuzioni alla soglia della sopravvivenza, occorre essere onesti nel porre una seconda domanda: quanti dei nostri giovani sono disposti a fare la gavetta? E, se non lo sono, dobbiamo avere il coraggio di indagarne le ragioni.

Ma anche la gavetta è figlia dell’educazione: come può un ragazzo di 16, 17, 18, 19 anni non avere una alternativa al nulla? Come un genitore può acconsentire che il proprio figlio non dedichi il proprio tempo ad una attività di volontariato, in qualsiasi settore? È ovvio che, se il giovane è abituato a trascorrere il proprio tempo nel nulla, quando si presenterà ad un colloquio, cosa chiederà, se non quando sono le ferie o se si lavora il sabato? E mi sia consentito di dire che la scuola ha purtroppo una grande responsabilità. Basti un solo esempio: quanti presidi e dirigenti temono le bocciature al pensiero del sicuro ricorso da parte dei genitori? Perché si ha paura ad ammettere che il proprio figlio non ha studiato, non è stato sufficientemente responsabile? Perché il figlio ha sempre ragione rispetto ai dati incontrovertibili della scuola? Chi mi conosce sa che non lesino critiche, a nessuno: guardo le idee e non le persone.

Devo ammettere che il tentativo avviato dal ministro Valditara di dare dignità alla figura professionale del docente, la proposta del liceo del Made in Italy, l’introduzione delle Linee guida sull’Orientamento, l’Agenda Sud per la scuola, sono tutte iniziative importanti volte a puntare l’attenzione sulla formazione dei giovani e sulla loro responsabilizzazione in un’ottica lavorativa per il bene della società. Del resto il lavoro è mezzo privilegiato con il quale ciascuno di noi contribuisce al bene di tutti. Chi, al contrario, adesso cavalca l’onda dello scontento degli ex percettori del reddito ormai abolito non fa che tradire tutta la collettività. È un giocare sulla povertà degli altri, un tentare di fare manbassa di voti a danno di tutti, poveri in primis.

Allora invito tutte le forze politiche, le parti sociali, il mondo delle diverse associazioni radicate nei singoli territori a cambiare la rotta, a creare sinergie positive, ossia educative. E invito anche, mi sia consentito, tutti ma, in particolare, il mondo della scuola paritaria cattolica ad aiutare i genitori nel loro compito educativo, in quanto consapevole di essere nata per questo e in quanto consapevole di avere a che fare con il futuro. Certo, anche la scuola statale ha lo stesso compito, ma la scuola paritaria lo ha perché convinta di esservi stata chiamata per divina ispirazione attraverso il coraggio e l’intraprendenza dei Fondatori che hanno pensato di riformare la società attraverso l’impegno a favore dei giovani. Mutuando una famosa espressione potremmo dire: societas semper reformanda, aggiungendo, per iuvenes et pro iuvenibus: attraverso i giovani e a favore dei giovani.

Suor Anna Monia Alfieri, 13 agosto 2023