Dopo trenta lunghi anni di attese, delusioni e tentativi puntualmente andati a vuoto, i tempi sono finalmente maturi per mettere mano alla Giustizia e archiviare una volta per tutte quel “metodo Tangentopoli” che ha caratterizzato, sin dalla sua genesi (si pensi all’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi al G7 di Napoli, nel 1994), tutta la vita della Seconda Repubblica.
Le inchieste giudiziarie che a suo tempo decapitarono la Prima Repubblica e i suoi protagonisti, finirono infatti col decretare un’indiscussa e indiscutibile supremazia del potere giudiziario sugli altri poteri dello Stato, con la politica, condannata ad un’eterna subalternità rispetto alla magistratura. Una situazione di abnorme disequilibrio andata avanti ininterrottamente nell’arco degli ultimi tre decenni e in essere tuttora, che dimostra come, in Italia, la stagione di Mani pulite non si sia mai chiusa veramente. Ne permangono ancora intatti i metodi e la retorica, gli squilibri e le anomalie, unitamente a quell’ondata travolgente di populismo giudiziario che ha radicalmente cambiato il modo di fare ed intendere la politica e sovvertito l’ordine democratico precostituito.
Quindi no, non è affatto un’eresia sostenere che Tangentopoli non sia mai finita. E invece sì, questa è proprio l’occasione perfetta per archiviare definitivamente quella controversa stagione. Le condizioni ci sono tutte. Un governo di centrodestra con una solida maggioranza parlamentare, un Guardasigilli di chiara estrazione liberale (era ora), dei pezzi di opposizione dotati di una certa cultura garantista (Italia Viva, Più Europa e Azione), il venir meno della situazione di equilibrio geopolitico post 1989. Ed è proprio questo il punto cruciale su cui focalizzare l’attenzione.
La Prima Repubblica, che fino al momento del suo sgretolamento aveva garantito decenni di crescita e benessere ai cittadini, crollò come conseguenza diretta della caduta del Muro di Berlino e della conseguente fine della Guerra Fredda. Quei partiti che fino ad allora avevano rappresentato una garanzia per il “mondo libero”, persero ben presto la loro ragione d’esistere per effetto del mutato scenario geopolitico che stava via via delineandosi, con la fine del mondo diviso in due blocchi e l’avvio di una nuova epoca americanocentrica. Una fase storica, tuttavia, anch’essa consegnata al passato, con il mondo ormai in avanzata fase di transizione dall’unipolarismo a un nuovo multipolarismo. L’ennesimo mutamento epocale degli assetti geopolitici globali, che richiede ora, necessariamente, dei nuovi interpreti e dei nuovi equilibri. Proprio come fu all’indomani del 1989.
Cosa c’entra tutto questo con la riforma della Giustizia? C’entra, eccome. Perché in questa fase di creazione di un nuovo ordine mondiale, Giorgia Meloni rappresenta una garanzia di atlantismo e di occidentalità per gli alleati, probabilmente l’unica che oggi il panorama politico nazionale possa loro offrire. Questo non equivale certo a dire che il presidente del Consiglio sarà immune da attacchi e rappresaglie provenienti da parte di quei centri di potere che la sua riforma minaccia, ma, perlomeno in questo frangente storico, l’Occidente ha un disperato bisogno di Giorgia Meloni. Un motivo in più per pensare che il suo governo possa resistere alla forza dirompente dell’arma giudiziaria e portare avanti epocali progetti di riforma, come quello sulla Giustizia.
Il momento è buono: Giorgia Meloni vada avanti a testa alta, con coraggio e determinazione. Glielo chiedono i cittadini, glielo chiede il paese. E chissà che questa riforma non possa davvero inaugurare un nuovo ciclo, liberale e garantista, e aprire la strada ad un più ampio e deciso percorso riformatore sulla via di una Terza Repubblica.
Salvatore Di Bartolo, 30 maggio 2024
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