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Con la Tav cancellata nessuno crederà più all’Italia

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Il ministro dell’Economia Tria sulla Tav ha parlato chiaro e bene. Non si è soffermato tanto sulla bontà del progetto della Torino-Lione, non ha parlato dei suoi benefici ed eventuali costi. Ha buttato la palla su un altro campo: l’unico evidentemente in cui un economista prestato al Tesoro poteva giocare. Se dovessimo cancellare la Tav, ha più o meno detto, sarebbe un segnale grave. Giacché un governo non può cancellare i contratti fatti dai propri predecessori. Se si dovesse procedere per questa strada, ha aggiunto, chi mai si fiderebbe dell’Italia.

Ogni esecutivo potrebbe cambiare le carte in tavola con i suoi contraenti disconoscendo le firme apposte da chi lo ha preceduto. L’effetto economico sarebbe devastante: chi mai verrà ad investire in Italia. Fino ad oggi politici e analisti si sono confrontati entrando nel merito di questa benedetta ferrovia. Ma come dice in modo limpido Tria, il problema è tutt’altro. Posto che gli altri due firmatari del contratto, l’Europa che lo finanzia e la Francia che scava le tratte gemelle, non hanno alcuna intenzione di stracciare l’accordo. La questione è come non rispettare un contratto, il cui sottostante è meno importante del principio universale per cui pacta sunt servanda. Non è la prima volta che l’Italia rompe un accordo. Sempre mal ce ne incolse.

Senza andare a pescare lontane alleanze, basti ricordare lo scempio fatto sullo scudo fiscale. Prima si convinsero gli italiani a riportare in patria i quattrini. Poi, cambiato il governo, si ricolpirono i medesimi con una tassa aggiuntiva non prevista e sempre esclusa. Gli italiani sanno che non si possono fidare della loro pubblica amministrazione, che i loro crediti vantati nei confronti dello Stato sono aleatori nei tempi e spesso anche nella sostanza, che i loro lavori pubblici sono soggetti a modifiche di ogni tipo, che le loro istanze sono bocciate oggi ma non è detto che lo siano domani.

Un rito bizantino che rende l’esecuzione dei contratti un terno al lotto. Gli italiani sono «anti-fragili» come direbbe Taleb: tanto che i più abili o più furbi nei propri preventivi aggiungono sovracosti per l’inaffidabilità del contraente pubblico. È difficile spiegare tutto ciò ai burocrati europei, che peraltro hanno milioni di buoni interessi per spostare risorse dall’Italia ad altri Paesi. È difficile spiegare a chiunque che il nostro ministro dei Trasporti dice che i bandi di gara (da fare entro dieci giorni, pena la perdita di finanziamenti per 300 milioni) si facciano pure nei termini previsti, tanto restano sei mesi per cancellarli una volta approvati. Il mercato del Testaccio era genuino e romano, il suk della stazione Termini fa solo schifo.

Nicola Porro, Il Giornale 2 marzo 2019