Giorgia non può più ballare da sola da quando la musica nel “salone delle danze” è cambiata. Infatti, nella stagione che riapre l’orchestra suona le note della legge sull’autonomia differenziata, scritta e diretta dal maestro Calderoli. Al contrario, se a settembre Meloni volesse bissare un assolo – vedi gli extraprofitti delle banche di agosto – il suo governo inizierà a perdere il ritmo, così come gli alberi in autunno perdono le foglie.
Tuttavia la Costituzione italiana prevede che il presidente del Consiglio sia un primus inter pares, dunque senza poteri superiori a quelli dei ministri, e il fatto che la premier dichiari, a testate unificate, di aver deciso lei per tutti sugli extra profitti, rischia di costarle caro. Ma nonostante in Italia il “premierato” non esiste (ancora), Meloni si comporta come se ci fosse e, così facendo, il disegno di legge del ministro per gli affari regionali Calderoli verrà utilizzato come un do ut des, ovvero una sorta di permuta al via libera al premierato, nonostante la dicotomia esistente fra la riforma Meloni, che centralizza il potere, in antitesi con quella di Calderoli che lo vuole invece lontano dal “centro”.
Se per accontentare sia Lega che Fratelli d’Italia le due riforme dovessero essere entrambe approvate, finirebbero per annullarsi a vicenda oltre a contribuire ad aumentare l’entropia nelle posizioni del governo: l’unità dello Stato – rectius della Nazione nel lessico Meloniano – deve rimanere un punto fermo oppure, al contrario, sono maturi i tempi per una disarticolazione territoriale? Entrambe le riforme hanno in effetti i loro punti oscuri. L’autonomia differenziata suscita dubbi soprattutto sul piano economico, per la sostenibilità dei conti pubblici e per i criteri di riparto delle risorse fra le Regioni, di cui si è molto parlato e su cui si è espresso, tra gli altri, il Comitato di saggi presieduto da Sabino Cassese.
Ma capita l’antifona, da lupi di mare navigati, proprio in dissenso rispetto al testo Calderoli, dal Comitato di saggi è partito un carosello di dimissioni che ha coinvolto, tra gli altri, gli ex presidenti della Corte Costituzionale, Giuliano Amato e Franco Gallo. Oggetto del contendere: i livelli essenziali delle prestazioni (lep) da garantire come omogenei in tutti i territori, principio ben lungi dall’essere rispettato senza far saltare i conti qualora, come vorrebbe il governo, ci si basi sull’andamento della spesa storica anziché su criteri di efficienza di erogazione dei servizi. In realtà un precedente c’è già anche se non molto incoraggiante, anzi miseramente fallito: i livelli essenziali di assistenza (lea) nella sanità pubblica.
Nicola Zingaretti, che una regione importante come il Lazio l’ha governata, non ha esitato a definire l’autonomia differenziata un “pasticcio”. Ma ci sono altri aspetti da considerare anche se meno immediati. In primis il tema politico, con Calderoli che ha ripreso il punto duro e puro del “leghismo” che costituisce sicuramente una minaccia per Salvini. Il leader del Carroccio, infatti, ha fatto diventare la Lega un partito nazionale, è andato oltre la Padania per conquistare pezzi di elettorato e di società e oggi opera meritoriamente nel settore infrastrutturale. Mentre Calderoli, Zaia e l’ignaro Fontana segano la trave sulla quale vuole camminare Salvini.
Senza contare la delicata questione delle relazioni estere: Friuli-Venezia Giulia e Veneto negozieranno la loro competenza a gestire rapporti con la Slovenia, la Croazia e l’Ungheria? Il Veneto terrà il filo antico con la Turchia e magari con la Cina, soprattutto per la questione del porto di Trieste? La Sicilia, che aderirebbe all’autonomia per coerenza di maggioranza, tratterà con la Tunisia per frenare gli arrivi di immigrati sulle coste isolane e, quindi, per gestirne l’accoglienza? Ma per cogliere fino in fondo il nocciolo del problema bisogna tornare indietro.
Lo sviluppo conseguito dal Friuli in questi anni e il forte consolidamento dell’economia del Trentino-Alto Adige hanno suscitato dapprima l’attenzione, e poi l’invidia dei vicini di casa. Ne è nata così l’ambizione di avere una finanza delle Regioni analoga rispetto a quelle a statuto speciale con queste confinanti. Ma questa è solo una velleità per non dire una chimera. Così come l’eventuale rafforzamento dei poteri delle Regioni che scaturirebbe dal semaforo verde all’autonomia differenziata. E per questo Salvini, che ha intuito l’inganno, già pensa a ripristinare le già defenestrate province: in pratica un tutti contro tutti.
D’altronde, l’elezione diretta del premier senza ballottaggio non esiste in nessun sistema elettorale di un Paese democratico. Si creerebbe così una figura troppo forte non solo rispetto al potere legislativo, ma anche al presidente della Repubblica. Immaginiamo per un attimo se quest’ultimo decidesse di intervenire, come sempre più sovente accade, su qualche tema rilevante e il premier, forte di essere stato eletto direttamente dal popolo e non dal Parlamento lo smentisse. Il banale esempio serve a evidenziare la rilevanza dell’alterazione dell’intero assetto costituzionale. E se, invece, la proposta della Meloni fosse solo una mossa volta più che altro ad annullare l’autonomia differenziata, che è la vera bomba ad orologeria sul governo e che va assolutamente disinnescata?
A questo proposito, la dicono lunga le parole del presidente Ignazio La Russa ad un ministro durante una seduta fiume al Senato sulla riforma della Giustizia: “Questo non è niente, deve vedere che succederà quando arriverà la riforma Calderoli”, il quale a sua volta, già si sente un martire minacciato dalle lobby. Chissà se a Giorgia risuonano le parole della canzone di Yves Montand pensando al suo settembre “le foglie morte si raccolgono insieme come i ricordi, come i dispiaceri e il vento del nord le porta nel freddo paese”.
Luigi Bisignani per Il Tempo 20 agosto 2023